Sic Semper Tyrannis – quarta parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

 

4

Come rientrò in casa Alessio cercò di non far troppo rumore, non voleva svegliare l’anziana madre che dormiva al primo piano. Posò la giacca nell’armadio della sua camera e poi si diresse nel salone principale. I suoi quattro gatti lo accolsero miagolando, Alessio li accarezzò uno alla volta lasciando per ultima MacchiaNera, l’unica femmina del gruppo. 

Il tavolo della sala perfettamente ordinato custodiva un piatto di pasta al ragù che l’anziana madre di Alessio gli aveva lasciato come cena. Mentre mangiava il piatto di pasta ancora caldo, l’uomo navigava con il suo smarth-phone alla ricerca di qualsiasi notizia inerente alla Cappella di San Martino e alla frase attribuita a Marco Giunio Bruto.

Un bicchiere di vino bianco accompagnava la sua ricerca, trovò altre informazioni sulla vecchia cattedrale. Attualmente il sito era diventato il fulcro di uno scavo archeologico e punto d’interesse turistico. La zona adiacente della cattedrale era situato in un terreno dove recentemente dopo alcuni scavi archeologici erano affiorate alcune tombe d’epoca medioevale.

Si stava facendo tardi ed Alessio continuava imperterrito le sue ricerche sulla cattedrale, all’improvviso una figura emerse dal buio facendo il suo ingresso nel salone. “Alessio, sei ancora in piedi.” Disse Antonia, l’anziana madre dell’uomo. “Si mamma, sto terminando alcune ricerche.”

“Ti ho aspettato tutto il giorno in tabaccheria, perché non sei venuto a darmi il cambio? Sono vecchia non ce la faccio a fare tutta la giornata.” Alessio continuava a guardare  il suo cellulare, come se non volesse prestare attenzione a quello che diceva la sua anziana madre.

“Domani mattina potresti aprire tu il negozio? La casa è molto sporca e vorrei pulirla, inoltre credo che chiuderò alcune stanze, tanto non le usiamo.” Alessio continuava a fissare il suo telefono. “Non posso aprire la tabaccheria domani devo fare dei giri. Forse vengo nel pomeriggio.” La madre non provò a ribattere nemmeno, erano anni che aveva rinunciato a tentare di dialogare con lui.

Da quando era tornato dalla città quel figlio aveva portato solo problemi. Incapace di laurearsi, in quattro anni passati fuori casa aveva quasi dilapidato il patrimonio familiare e soltanto il taglio dei fondi lo avevano costretto a tornare sull’isola. Svogliato e poco propenso ad aiutare l’attività di famiglia, Alessio trascorreva tutte le sue giornate al bar con gli amici, degli scapestrati come lui, o si perdeva per ore in spiaggia cercando di abbordare turiste americane.

Inoltre per sua sfortuna la madre non riusciva a convincere il figlio a trasformare la loro vecchia casa in un “bed and breakfast” dove affittare delle camere ai turisti. Quel ragazzo era totalmente cambiato da quando era tornato dalla grande città. L’esperienza universitaria doveva essere un punto di partenza per Alessio, che lo avrebbe dovuto far diventare uomo, valorizzarlo con un prestigioso titolo di studio e in futuro gli avrebbe permesso di cercare un buon posto di lavoro e farsi una famiglia.

Invece era tornato dopo quattro anni con nessun pezzo di carta d valore, anzi, era rientrato sull’isola pieno di debiti di gioco e senza la macchina che i genitori gli avevano comprato quattro anni prima per aiutarlo a raggiungere l’università.

Del vecchio Alessio, rimaneva solo il suo sconfinato amore per i suoi gatti. Quei quattro cuccioli presi quando Alessio era un ragazzino ora erano divenuti gatti adulti, purtroppo secondo Antonia i gatti erano cresciuti mentre il figlio era rimasto un bambino capriccioso.

Antonia si trasportò faticosamente in cucina dove Paperone un micio dal pelo rosso stava sonnecchiando sopra una sedia, prese un bicchiere d’acqua, diede uno sguardo fuori la finestra, la piazza era completamente vuota e buia, poi lentamente rientrò nelle tenebre da dove precedentemente era apparsa.

La mattina seguente stranamente Alessio decise di alzarsi relativamente presto, dopo aver sbrigato alcune faccende, come lavarsi e dar da mangiare ai gatti,discese in strada e aprì la cantina adiacente alla sua abitazione. In quei paesi soprattutto nelle casa di origine medievale, le stalle per secoli erano state adibite a conservare la legna e far riposare i cavalli. Adesso nei tempi moderni venivano utilizzate come garage e ripostigli. Alessio superò senza fatica della legna lasciata malamente accatasta su una parete tempo prima e raggiunse il vecchio motorino, ricordo ancora vivo e vegeto della sua gioventù.

Il suo bolide era un vecchio SI della Piaggio ancora funzionante. Alessio all’epoca lo aveva verniciato di nero, modificato marmitta, motore e variatore. Quel vecchio trabiccolo degli anni novanta poteva ancora raggiungere senza fatica i settantacinque chilometri all’ora. Prese una tanica di benzina e ne travasò un po’ di contenuto in un’altra vuota, poi aggiunse dell’olio da una bottiglia andando a formare la giusta miscela per  il motore del motorino. Alla fine riempì il serbatoio, aprì la valvola dell’aria e fece girare i pedali e dopo pochissimo il vecchio motore del SI scoppiettò per tutto il garage.

Alessio indossò la giacca nera, inforcò un paio di occhiali scuri e dopo aver chiuso il garage montò sopra il motorino sfrecciando in direzione sud, alla ricerca della vecchia cattedrale. La sera prima si era studiato la strada su Google Maps e si era convinto che era necessario andare a visitare quella cappella. Anche se non sapeva cosa dovesse cercare, sempre se c’era qualcosa da scovare, e poi era sempre meglio che rinchiudersi nella tabaccheria con la madre ad ammuffire. Non poteva rinunciare alla fantasia che quel messaggio nella bottiglia gli aveva acceso nella mente. Alessio si era immaginato che forse avrebbe scoperto un tesoro d’epoca medioevale e una volta recuperato il bottino avrebbe potuto finalmente lasciare quella maledetta isola e ritornare alla civiltà.

Il vento caldo di giugno accompagnava il tragitto di Alessio. L’estate era alle porte e l’isola iniziava a riempirsi di turisti. Tramite internet era riuscito a prenotare una visita alla cattedrale aggregandosi ad un gruppo guidato che avrebbe visitato l’antica chiesa e le tombe adiacenti.  Il vecchio motorino dalle ruote grandi faceva cantare la marmitta per la strada di campagna che saliva fin sopra la parte più alta dell’isola, dove era stata costruita la cattedrale. Il sole si rifletteva sugli occhiali scuri di Alessio perdendosi nella campagna adiacente, nel cielo non c’era neanche una nuvola era l’estate che faceva il suo ingresso prepotentemente.

Le cicale nascoste tra i pini tipicamente mediterranei cantavano freneticamente, mentre Alessio affrontava le ultime curve che lo avrebbero portato fino all’ingresso della zona archeologica. L’antica cattedrale era in realtà una rudere, il tetto era quasi tutto andato distrutto, miracolosamente la parte della Cappella di San Martino era rimasta intatta. Alessio aveva visionato alcune foto su internet, ma non aveva visto niente che poteva legare con la restante parte del messaggio della bottiglia.

Alessio legò il motorino proprio accanto l’ingresso del sito archeologico e raggiunse un gruppetto di persone che si erano messe in circolo ad ascoltare una giovane donna dai capelli biondi. Alessio li raggiunse scusandosi per il ritardo. La donna barrando anche il nome di Alessio Martini, concluse l’appello sui partecipanti e annunciò che la visita era in partenza. Alessio si mise vicino la guida perché voleva approfittare dell’esperto per fare alcune domande. [continua…]

A volte ritornano…

 

Nel marzo del 1993 un piccolo robot meccanizzato costruito in Germania, denominato Upuaut II, che in egiziano antico significa: “Colui che apre la via”, dopo aver attraversato un lungo ed oscuro cunicolo sotterraneo nella Piramide di Cheope in Egitto, scopriva una minuscola porticina di marmo.

All’indomani di quella straordinaria scoperta, le autorità egiziane revocavano agli occidentali  il permesso di continuare gli scavi. Così nessuno venne a conoscenza di cosa si celasse dietro quella misteriosa porta scovata all’interno della Grande Piramide.

Dopo alcuni mesi un comunicato dell’ufficio stampa delle autorità egiziane dichiarò che non c’era nulla dietro la porta trovata dal robot tedesco.

Ultimamente è giunta una notizia alquanto singolare, sembra che un famoso archeologo Egiziano in visita negli Stati Uniti si sia lasciato scappare in via confidenziale alcune rivelazioni riguardo la camera segreta scoperta dal robot tedesco nel 1993

Zahi Hawass era in America alla ricerca di fondi, e dinanzi ad un circolo ristretto pare abbia confessato una verità sconvolgente, tanto da costringere l’Occidente a dover riscrivere la storia passata.

Queste le sue parole: “Il ritrovamento di quella porta è la più importante scoperta della storia dell’Egitto. Abbiamo trovato dei manufatti incredibili.”

Ad oggi l’Egitto è una terra divenuta inospitale e se anche riusciste ad arrivare a Giza, dal 1993 vige il divieto di filmare o fotografare l’intero sito archeologico.

Ma anni prima del robot tedesco c’è stato un uomo che ignaro del suo destino ha varcato quei meandri che racchiudono segreti inconfessabili. La sua storia è giunta fino a noi grazie al lavoro meticoloso e coraggioso dei redattori di questo blog.

Probabilmente il 2014 sarà ricordato come l’anno delle grande rivelazioni e se continuerete a seguirci, voi amici, sarete i primi a sapere dopo 20 anni cosa si nasconde dietro quella porta.

La Redazione della Cripta

L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – seconda e ultima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

 

 

Il tempo non aveva cambiato di molto Renzo, la tonaca nera che indossava con la sciatta eleganza che lo aveva sempre contraddistinto gli conferiva un’aura forse più austera, ma nel complesso familiare. Mi accolse con il consueto abbraccio vigoroso e manesco e per un attimo mi sembrò di essere tornato indietro di vent’anni, finché non intravidi uno strano fuoco ardere nei suoi occhi, che istintivamente mi fece rabbrividire. Gli eventi che seguirono furono convulsi e cercherò di riassumerli nel modo più breve possibile, in modo tale che i miei sentimenti non mi impediscano di mantenere la lucidità necessaria.

Nella lettera che mi aveva scritto, Padre Peraldi non aveva esitato ad accostare il nome dell’unica città Maya ancora abitata scoperta da Juan De Grijalva, Tulum, con l’aborrito nome di Cthulhu, il dio dormiente nella sommersa città di R’lyeh di cui parla il Necronomicon. Secondo Renzo, l’ultima città Maya portava proprio il nome del dio, seppur travisato dalla lingua indigena. In un passo del Necronomicon si asseriva che in alcune culture, nei tempi antichi, un determinato giorno di un determinato anno, che ricorreva dopo un certo ciclo di decadi in cui il pianeta Venere è particolarmente visibile dalla Terra, e all’osservatore attento sembra risplendere di un colore inconsueto, donne e uomini consacrati dai sacerdoti venivano legati ad uno scoglio percosso dai flutti del mare, secondo un preciso rituale. La recita di formule stabilite, unita al canto di particolari uccelli sacri, attraversava la distesa dell’Oceano fino all’orizzonte, penetrando le profondità marine e destando il dio dormiente, che rispondeva al richiamo per poi emergere dalle acque econsumare il suo orrendo sacrificio. In cambio delle vite a Lui offerte, la città riceveva ricchezza e prosperità. Il perpetrarsi di questa barbara tradizione, secondo Renzo, aveva salvato Tulum dalla decadenza e dall’abbandono che invece aveva colpito le altre città dei Maya.

Dopo i frettolosi saluti, fui letteralmente strattonato nel suo studio all’interno della missione. Con mia somma sorpresa, nella stanzetta con un’unica finestra a cui si accedeva soltanto dalla biblioteca fummo accolti da uno strano suono che non avevo mai sentito prima di allora. L’autore di quel verso bizzarro non era altri che l’uccello dalle verdi piume che si agitava impaziente all’interno di una grossa gabbia che Padre Peraldi aveva appeso al soffitto dello studio.

 

“Che diavolo significa tutto questo?” protestai di fronte a quello che era palesemente una rara specie di tucano di grosse dimensioni, con una livrea inconsueta che non avevo mai visto prima.

 

“Non è meraviglioso?” esclamò il mio amico con tono stentoreo mentre l’uccello, innervosito dalla nostra presenza, continuava a ripetere il suo verso all’infinito.

 

Si trattava di una rarissima specie di tucano originaria soltanto di quella parte dello Yucatan. Stephens e Catherwood ancora accennavano di aver visto alcuni di questi volatili aggirarsi per le rovine di Tulum ai tempi del loro viaggio, ma dai primi del ‘900 era certo che questa specie dal colore così particolare si fosse ormai estinta del tutto. Padre Peraldi mi raccontò come avesse miracolosamente trovato quell’unico esemplare nel tronco cavo di un albero non lontano dal complesso delle rovine. Di per sé sarebbe già stata un’incredibile scoperta, ma ovviamente non era tutto.

Un mese prima, un amico sacerdote aveva spedito a Renzo un manoscritto da Cuba, che prontamente mi fu mostrato per dare soddisfazione alla mia curiosità. Era una testimonianza inedita, a quanto pare redatta di proprio pugno nientemeno che da Juan de Grijalva, di cui non si era mai venuti a conoscenza prima e che era stata rinvenuta nelle rovine di un monastero, al sicuro all’interno di uno scrigno di metallo. Leggendo lo spagnolo antico in cui era redatta la pergamena a fatica, nonostante avessi qualche dimestichezza con l’idioma, non potei in alcun modo nascondere il mio stupore.

Grijalva, durante la sua breve visita, raccontava di aver assistito ad una misteriosa cerimonia, celebrata dagli indigeni in una notte particolare, durante la quale la stella di Venere risplendeva nel cielo con una luce e un colore che gli Spagnoli non avevano mai visto prima. Due vergini e due giovinetti, benedetti dai sacerdoti nel Tempio del Dio Discendente, erano stati poi legati ad uno scoglio in riva al mare. Tutti gli abitanti di Tulum si erano poi radunati sulla spiaggia, vestiti a festa ed ornati di piume verdi e monili di ogni genere. Al capitano e a due dei suoi ufficiali era stato permesso di assistere alla cerimonia, mentre gli altri marinai sarebbero dovuti rimanere sulla nave ormeggiata poco lontano. Assicuratisi che tutti gli Spagnoli tranne i tre a cui era stato consentito di rimanere fossero tornati a bordo, i sacerdoti avevano portato gabbie al cui interno si agitavano decine di uccelli dal grosso becco allungato e dalla livrea del colore dello smeraldo.

Sotto gli occhi attoniti degli Spagnoli, gli officianti avevano infine iniziato ad intonare una litania in una lingua sconosciuta, che a Grijalva e i suoi era parsa completamente differente da quella con cui avevano cercato di comunicare con loro. Quasi all’unisono gli uccelli avevano allora iniziato ad emettere il loro caratteristico verso profondo, alto e monotono, che aveva solcato le onde lontano, fino all’orizzonte. Il suono fu udito persino dai marinai rimasti confinati sulla nave. Poi erano passati istanti interminabili, mentre il timbro monotono degli uccelli si era fuso con l’incessante lamento dei sacerdoti in una cacofonia infernale. Grijalva e i suoi avevano tremato mentre la vista e i sensi pian piano iniziavano a confondersi.

Infine, a largo, i flutti avevano cominciato a muoversi improvvisamente, formando un gorgo di proporzioni immani. Anche i marinai sulla nave lo videro ed iniziarono a gridare in preda al terrore mentre una figura indistinta e colossale, che sembrava avere molti tentacoli ed immani ali, iniziava ad emergere grondante dalle acque per avvicinarsi alla riva, verso lo scoglio dove erano state legate le quattro vittime. A quella vista, Grijalva e i due ufficiali risalirono velocemente sulla scialuppa, tornarono a bordo della nave e lasciarono più velocemente che potevano Tulum e gli empi riti dei suoi abitanti. Gli indigeni, come in trance, rimasero a contemplare la mostruosa figura che si avvicinava a grandi passi verso di loro e non tentarono neppure di fermarli.

Tornato a Cuba, per paura di essere preso per pazzo, dopo aver pagato profumatamente i marinai per il loro silenzio, Juan De Grijalva aveva nascosto al sicuro in un monastero la testimonianza  di quella notte, vergata di suo pugno proprio sulla pergamena che in quel momento stavo tenendo tra le mani. Il prezioso documento avrebbe potuto con tutta probabilità rimanere nascosto in quel rifugio sicuro per sempre; invece il destino aveva voluto che il fortuito ritrovamento di un sacerdote curioso e dall’animo semplice lo facesse finire in possesso di Renzo Peraldi, l’uomo che in quel momento mi guardava di nuovo con lo sguardo esaltato che già mi aveva colmato di inquietudine. La luce delle lampade dello studio si rifletteva grottescamente sulla testa calva del mio ospite, mentre l’uccello in gabbia aveva ricominciato ad emettere il suo verso stridulo.

 

“Capisci ora perché ti ho fatto venire fin qui?” esclamò a voce alta.

 

“A questo hanno portato i miei studi degli ultimi dieci anni e poche settimane fa la scoperta di quel volatile creduto estinto ha quadrato il cerchio. Non può esserti sfuggita l’analogia tra questo racconto e quanto ti ho scritto di aver letto nel Necronomicon. Hai capito a quale entità che nemmeno oso pronunciare in questo luogo di Dio sacrificavano i sacerdoti di Tulum fino a 400 anni fa in cambio di ricchezza e prosperità, prima che gli Spagnoli spazzassero via tutto! Il Tempio del Dio Discendente, così lo abbiamo chiamato! Sciocchezze! Il dio non si tuffava dalle acque ma sorgeva da esse!”

 

Cercai per cortesia di non far trasparire l’ansia e il disgusto che il suo tono stentoreo e folle mi suscitavano in quel momento. Non potendo credere che fosse uno degli scherzi di cattivo gusto che amava fare in gioventù, né che fosse giunto a tanto, persino a farmi venire in Messico, per il solo piacere di prendersi gioco di me, non mi restava che ammettere che Padre Peraldi aveva perso completamente il senno. Dovevo prendere tempo assecondandolo.

 

“Sono felice di rivederti.” Risposi senza troppa convinzione.

 

“E sono ancora più felice del fatto che hai deciso di rendermi partecipe di una così incredibile scoperta, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirmi… Qual è il vero motivo per cui mi hai fatto venire fin qui? E in che modo potrei esserti d’aiuto?”

 

La risposta Renzo me la diede solo qualche ora dopo, mentre passeggiavamo per le rovine che aveva insistito a farmi visitare. Fu quello l’elemento definitivo che mi fece voltare per sempre le spalle al mio vecchio amico e tornare frettolosamente in Italia il giorno stesso.

Avrete capito anche voi, Renzo aveva intenzione di replicare il rituale e aveva bisogno di un complice un minimo qualificato perché tutto andasse per il verso giusto. Aveva scoperto che la notte seguente, come ogni 30 anni, Venere sarebbe stata in quella posizione particolare descritta nel Necronomicon e nella lettera di Grijalva. Naturalmente nei suoi piani sarei stato io ad aiutarlo ad officiare il rito, in qualità di lettore delle empie formule che i miei studi sugli antichi linguaggi mi avrebbero permesso di pronunciare con la corretta fonetica, mentre lui nel frattempo avrebbe costretto l’uccello ad emettere il particolare richiamo per Colui che dimora negli abissi. Perché il cerchio si chiudesse senza arrecare nessun danno agli officianti, mancava solo la vittima designata, che Renzo mi confessò aver scelto nella sua perpetua, tale Valeria, una prostituta che anni prima aveva salvato dalla strada e che gli era particolarmente fedele. Il suo piano era di drogarla, poi l’avremmo trasportata in barca  fino alle rovine, verso un atroce destino.

Nessuno potrà biasimarmi di non aver corso il rischio di diventare corresponsabile di un simile orrendo delitto, ordito solo per appagare l’ego insoddisfatto da decenni di Renzo Peraldi.

Non ebbi più notizie di lui per anni, finché non diventammo entrambi vecchi e finché non ricevetti la sua seconda e ultima lettera, quella che mi ha fatto tornare qui per rendere l’estremo saluto alla sua bara vuota. Renzo dovette aspettare altri trent’anni per mettere in atto i suoi propositi. Ma stavolta, stanco della vita, scriveva di essere determinato a sacrificare se stesso e nessun altro pur di avere il privilegio di assistere agli effetti di quell’antico rituale, giocando in tal modo il suo ultimo scherzo al destino.

Le conclusioni della lettera e il sentimento di lealtà che non mi ha mai abbandonato nel lungo corso degli anni furono motivazioni sufficienti a spingermi a varcare ancora una volta l’Oceano… Ma arrivai troppo tardi. Conoscendo Renzo, doveva aver previsto anche questo.

Non sono riuscito a collezionare molti dettagli sulla sua morte, se si eccettuano le testimonianze degli scarsi testimoni oculari, che possono giurare che il mio amico fosse alle rovine di Tulum la notte della più incredibile e unusuale tempesta di sempre. I guardiani del sito archeologico, la cui sorveglianza Renzo aveva eluso facilmente, da fine conoscitore dei luoghi qual’era, parlano di un immane gorgo formatosi misteriosamente a largo nella notte, accompagnato da un forte vento che aveva abbattuto gli alberi e da improvvisi rovesci di pioggia torrenziale. La tempesta apparve all’improvviso così come scomparve, dopo aver abbattuto la sua furia sulla costa per un’ora scarsa. Tutte le testimonianze e i bollettini metereologici confermano come il cielo fosse completamente sgombro di nubi e il mare calmo come una tavola, se si eccettua quella brusca e violenta interruzione. Sempre i guardiani mi raccontarono di esser stati svegliati pochi istanti prima dell’inizio della tempesta da un suono alto e profondo che squarciava la notte e che avevano identificato non a torto come il verso di qualche strano uccello che veniva dalla spiaggia. Precipitatisi lì, fecero appena in tempo a vedere il mio amico, già liberatosi dal suo abito talare e dalle pene terrene, affrontare noncurante le onde a nuoto in direzione del gorgo, per poi sparire per sempre tra i flutti.

Le guardie terrorizzate se la diedero subito a gambe e non possono aggiungere altro alla nostra storia, nè il black out che ha colpito il sito e la vicina Cancun aiuta a rendere attendibili le indiscrezioni di alcuni pescatori che quella notte erano in mare poco lontano dall’epicentro del fenomeno. Eppure non mi sento di ignorare i loro racconti, per quanto fantasiosi possano sembrare,  che dichiarano di aver scorto quella stessa notte una sagoma indistinta, di proporzioni colossali, emergere dall’ immane varco spalancatosi nel ventre stesso del mare, spiegare grandi ali membranose e chinarsi come per raccogliere con il braccio smisurato un relitto tra le onde, per poi scomparire poco dopo, tornando da dove era venuta.

 

Sic Semper Tyrannis – terza parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

  

3

 

Così la mattina seguente decise di prendere coraggio e materializzare quell’idea avuta la sera prima, condividere con Loredana l’apertura della bottiglia fagocitata dal dio Nettuno. Discese gli scalini di pietra che immettevano nella piazza principale, era una giornata particolare quella, gli ultimi turisti si preparavano ad abbandonare l’isola, dal belvedere si vedeva la zona degli imbarchi riempirsi di vita, auto e pullman che lasciavano le persone pronte ad imbarcarsi.

Il sole stava continuando la sua salita verso lo zenit, le nuvole erano sparite e l’aria frizzante di settembre continuava a rinfrescare l’isola. Alessio attraversò la piazza e si fermò come al solito a prendere un caffè al bar e poi si incamminò lungo Via Roma per raggiungere la biblioteca comunale. La biblioteca era situata all’interno del comune, occupava parte del secondo piano, proprio accanto agli archivi comunali.

Il paese racimolava all’incirca ottomila abitanti ma solo nella stagione estiva toccava tetti di sovrappopolazione, durante l’inverno era poco popolato e la vita scorreva lenta. Alessio abitava nel quartiere storico del paese situato sopra una delle colline che dominavano l’isola, mentre era nella zona degli imbarchi e delle spiagge di sassi bianchi che l’isola dava il meglio di se, con ristoranti caratteristici ed un panorama da mozzare il fiato.

La biblioteca era un luogo decisamente poco frequentato, un dedalo di scaffali ricolmi di libri costituiva la biblioteca ad eccezione della sala lettura ed un angolo adibito per le letture di gruppo.  Durante l’estate la biblioteca era frequentata da universitari in vacanza alla ricerca di libri, che fuori di lì sarebbero costati una fortuna. Ogni tanto c’era qualche visitatore occasionale che faceva ricerche catastali, oppure la sala delle letture di gruppo dove settimanalmente si cercava di coinvolgere i più piccoli.

Quella mattina sembrava una delle classiche giornate in cui la biblioteca assomigliava ad un cimitero, anche perché il lunedì l’apertura era posticipata alla quattro del pomeriggio. Così dopo aver svolto delle pratiche e sistemati gli scaffali con i libri riconsegnati durante il fine settimane, Alessio prese coraggio e si avvicinò a Loredana.

Si avvicinò lentamente alla ragazza salutandola cordialmente. Loredana era intenta a sistemare lo spazio dedicato ai bambini spostando delle piccole sedie di plastica colorate e preparando delle letture. Loredana era una ragazza dai lunghi capelli biondi, un viso sempre sorridente nonostante un handicap alla gamba sinistra che la faceva  zoppicare vistosamente. La ragazza rispose al saluto con il suo solito sorriso, erano diversi anni che lavoravano insieme ma nonostante gli anni passati sotto lo stesso tetto lavorativo tra i due non c’era molta confidenza.

A Loredana piaceva fare le torte, era una patita, ne sfornava di tutti i tipi e quando c’erano gli incontri con i bambini ne portava sempre una. Probabilmente se non fosse stato per quell’handicap avrebbe avuto una vita diversa, aveva sempre pensato tra se Alessio.

“Buongiorno Loredana, mi piacerebbe mostrarle questa bottiglia.” Loredana osservò incuriosita gli occhi neri di Alessio.

“Di cosa si tratta, Dottor Martini?” rispose sorridendo la ragazza, prossima ai quarant’anni.

Alessio solo in quel momento si rese conto che in tutti quegli anni si era fatto chiamare Dottore da quella ragazza, un titolo totalmente inutile in quel contesto. Alessio rimase alcuni secondi muto, leggermente imbarazzato poi prese coraggio e riprese a parlare.

“La prego Loredana, vorrei chiederle se può chiamarmi semplicemente Alessio.” Fece una pausa. “Anzi vorrei sapere se le posso dare del tu?”

Loredana sorrise come suo solito, ed annuì mostrando anche un leggero imbarazzo, come se quella richiesta fosse una sorta di liberazione anche per lei.

Alessio tossì rompendo l’imbarazzo. “Ti volevo mostrare questa bottiglia, l’ho trovata in mare ieri mattina, si tratta di una bottiglia con dentro un messaggio, dall’usura potrebbe avere anche cinquanta o sessanta anni.”

Loredana prese la bottiglia e la guardò alcuni istanti poi la restituì ad Alessio. “Vuoi aprirla? Adesso?” Alessio imbarazzatissimo, rispose quasi balbettando. “Si, mi piacerebbe.” Fece una lunga pausa. “Condividere con te questa scoperta.”

Loredana si scoprì felice del gesto di Alessio. Accolse favorevolmente l’idea del collega. Insieme si spostarono nell’ufficio della biblioteca, un piccolo settore con una stanza contente una scrivania con un personal computer, un piccolo bagno e il lungo e stretto balcone adibito come zona per i fumatori.

Alessio prese da una busta di plastica un suo vecchio asciugamano e ci avvolse all’interno la bottiglia, dopo la poggiò in terra e sempre dalla busta prese un martello, infine colpì un paio di volte la bottiglia avvolta nell’asciugamano.

La ragazza si teneva appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, osservava incuriosita la scena. “E’ emozionante tutto questo?” disse rivolgendosi ad Alessio che intanto apriva con cautela l’asciugamano.

“Credo che sia una cosa curiosa, difficilmente troverò un altro messaggio nella bottiglia.” Spiegò a Loredana mentre con cura spostava i cocci di vetro nella busta e poi con particolare cura prese il foglio arrotolato ormai libero dalla sua custodia di vetro.

Una volta preso il foglio si alzò in piedi e fece alcuni passi verso la ragazza. “Mi farebbe piacere, se fossi  tu a leggere il messaggio.” Disse con un espressione del viso imbarazzata. Loredana prese il foglio tra le mani e srotolo con calma, Alessio era sicuro che si trattasse di un sonetto d’amore, così chiuse leggermente gli occhi aspettando di ascoltare la voce di Loredana recitare parole d’amore.

“Sic Semper Tyrannis. Cappella San Martino” Lesse ad alta voce Loredana. Alessio a quelle parole ebbe una specie di sussulto, una vertigine improvvisa e quando aprì gli occhi la stanza gli sembrò girare. Forse era solo un’impressione ma si sentiva diverso, cose qualcosa stava cambiando intorno a lui.

 Quella sensazione durò alcuni secondi subito dopo si fece consegnare il foglio e lo lesse almeno cinque volte esaminandolo minuziosamente. Prese il foglio e si sedette sulla scrivania, dalla tasca della giacca prese un altro foglio, e completò l’archiviazione della bottiglia, annotando la scritta rinvenuta nel messaggio.

Loredana cercò d’intraprendere una conversazione con Alessio, ma adesso sembrava esser tornato il Dottor Martini, così senza indugiare troppo tornò zoppicando a sistemare la zona lettura.

Trovare un messaggio nella bottiglia ha il suo fascino, facendo varie ricerche nessuno trai tanti  messaggi che il mare aveva restituito era simile a quello trovato dal bibliotecario. L’uomo decise di custodire il foglio ritrovato all’interno di un vecchio libro, lo ripose con cura tra le pagine di una vecchia edizione dell’Amleto. Intanto mentre riprendeva la sua routine lavorativa cercava di capire il significato di quel messaggio. 

“Sic Semper Tyrannis. Cappella San Martino” Riflettendo bene sull’isola c’era una vecchia cattedrale chiamata Santa Margherita, in disuso da secoli e per giunta devastata dagli attacchi aerei dell’ultima guerra. Era chiusa al pubblico quando gli alleati per errore la centrarono con l’artiglieria dei loro bombardieri. La cattedrale era un edificio a tre navate con un abside ed una piccola cappella decorata da intonaci dipinti e se Alessio non ricordava male era proprio dedicata a San Martino.

Quale strana coincidenza, che proprio su una parte selvaggia dell’isola esisteva da almeno l’anno mille le rovine di una cattedrale e al suo interno c’era ancora intatta una cappella dedicata al pontefice Martino. Possibile che la Cappella San Martino fosse la stessa segnalata sul messaggio della bottiglia. Però che connessione aveva con la frase attribuita a Bruto nell’atto di uccidere il patrigno Giulio Cesare?

“Così sempre ai tiranni. Cappella san Martino” continuava a ripetersi nella testa il bibliotecario, intanto senza accorgersene indossava nuovamente una giacca nera e salutando Loredana mentre lasciavano la biblioteca si rivolse alla ragazza dandole del lei. [continua…]

L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – prima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

Se voglio anche solo provare a spiegarvi il motivo del mio fastidio e l’ineliminabile sensazione di inquietudine che provo nel vedere tutti questi turisti sciamare come mosche attorno ad un cadavere in decomposizione, mentre osservo lo splendido blu del Mar dei Caraibi lambire la spiaggia sottostante alle maestose rovine del Castillo…

Se desidero che non vi prendiate gioco di me quando vi confesso che il semplice suono del canto di un tucano può gettarmi nel terrore più totale, neanche fosse il rintocco delle campane del Giorno del Giudizio… Allora non posso fare a meno di parlarvi di chi fosse Padre Peraldi, l’uomo la cui bara mi aspetta silenziosa e vuota nella chiesa della missione di Cancun che fu la sua ultima dimora terrena.

Oggi è il giorno del suo funerale, il tragico evento che mi ha fatto tornare qui alle rovine di Tulum, all’estremità meridionale del Messico, dopo trent’anni dal mio ultimo soggiorno qui e dalla mia conseguente e precipitosa fuga che mi portò a tornare in Italia e a forzarmi di dimenticare chi fosse quell’uomo che un tempo, forse con troppo azzardo, avevo chiamato amico.

Solo la sua ultima lettera, un vero e proprio testamento di chi aveva irrimediabilmente perduto la sanità mentale, mi ha spinto a vincere ogni paura e riluttanza e a salire su di un aereo per varcare di nuovo l’Oceano e rendergli l’estremo pietoso saluto.

Quanto tempo è passato dall’ultima volta che sono stato qui, nel ’60. Allora non c’erano tutti questi turisti con i loro bus chiassosi e volgari, ci si poteva arrivare solo via mare; anche se il complesso di rovine non era minimamente paragonabile allo splendido tesoro avvolto dalle spire della giungla, che eccitò la fantasia di John Lloyd Stephens e di Frederick Catherwood quando giunsero qui nel 1843, il luogo conservava ancora quel suo fascino arcano e misterioso che condusse Padre Peraldi a compiere il gesto che avrebbe portato alla sua morte terrena… E forse anche alla dannazione della sua anima.

Conosco Padre Peraldi da quando avevamo vent’anni. Rampollo di un’abbiente famiglia toscana trasferitasi a Roma, i soldi non gli erano mancati fin da piccolo, come pure una certa dose di singolare intelligenza, seppur volta troppo spesso a scopi sbagliati. Sembra un volgare luogo comune dire che il denaro non porta la felicità, ma se devo pensare alla suprema incarnazione di questo luogo comune non posso che ricordare Renzo, questo era il suo nome di battesimo.

Non certo di bell’aspetto, una precoce alopecia e la conseguente perdita totale dei capelli aveva contribuito a plasmare quell’immagine sgraziata e quasi scimmiesca che non gli aveva fatto riscuotere facilmente i favori dell’altro sesso. Nonostante questa disgrazia avesse compromesso nel profondo la fiducia che aveva in se stesso, Renzo aveva deciso di sfruttare quel tanto di intelligenza che almeno la Natura gli aveva donato e le risorse economiche della famiglia in molteplici e poliedriche passioni, quali la musica, la filosofia, lo studio della Storia, dell’archeologia e anche  di talune discipline rifiutate dalla scienza ufficiale.  Proprio quest’ultima passione lo aveva portato a possedere una rarissima ed inestimabile copia della traduzione in latino dell’infame Necronomicon, la cui lettura ossessiva nell’arco dei decenni successivi sarebbe stata cagione della tragedia che sto cercando di raccontare in queste pagine, che lascerò come suo ultimo epitaffio. Fallito il tentativo di riuscire nella musica, in cui non era minimamente portato, frustrati i suoi sforzi di conseguire un qualsivoglia successo accademico con i suoi studi, o di ottenere una pubblicazione delle sue ricerche fin troppo manieristiche sul medioevo giapponese, Renzo aveva rivolto tutti i suoi sforzi in un compulsivo collezionismo di tutto ciò che amava.

La sua casa di Roma era diventata un piccolo museo di armature giapponesi, elmi, berretti e divise degli eserciti più disparati, a partire dall’800 per finire ai due conflitti mondiali, per tacere dell’imponente raccolta di libri in edizioni rare e costose che non facevano altro che alimentare la sua frustrazione e il suo disappunto nel non essere riconosciuto tra quei grandi nomi e quei personaggi che riempivano la sua solitaria fantasia.

Si, perché Renzo Peraldi in fondo non era altro che un uomo solo. L’uso sporadico di psicofarmaci per lenire i suoi frequenti stati depressivi non avevano fatto altro che rendere inevitabilmente instabile il suo equilibrio psicofisico. Da questo erano scaturiti atteggiamenti che pian piano gli avevano alienato molte delle sue vecchie amicizie, specie quando Renzo si abbandonava a scatti d’ira, atteggiamenti violenti e maneschi che non riusciva a controllare, alternati a crudeli scherzi di dubbio gusto che, dopo aver placato per breve tempo il suo ego eternamente insoddisfatto, gli lasciavano il vuoto attorno, facendolo piombare di nuovo nella più totale disperazione.

Arrivato all’età di 35 anni, stanco del silenzioso museo che era diventata la sua prigione e dei vuoti simulacri di amore che il denaro poteva pagargli con donne di facili costumi, Renzo aveva preso una decisione che aveva sconvolto e lasciato attoniti i pochi amici che gli erano rimasti. E fu così che una parte dell’uomo che avevamo conosciuto morì per sempre, quando Renzo prese i voti e divenne Padre Peraldi, partendo in missione per il Messico, a Cancun.

Passarono quasi dieci anni, senza che avessimo molte notizie su di lui, se non che aveva svuotato il suo appartamento di Roma donando tutti i suoi cimeli alla Missione di Cancun, dove aveva allestito una piccola biblioteca e un museo accessibile ai poveri del luogo. Conoscendolo, più che un’opera di bene non era stato altro che un atto egoistico per non separarsi dagli oggetti che in qualche modo lo legavano alla sua vita precedente. Quando infine lo raggiunsi, scoprii che aveva portato la copia del Necronomicon con sé, riuscendo a tenerla nascosta agli occhi curiosi e bigotti dei suoi confratelli.

Le frequenti visite alle vicine rovine di Tulum e lo studio di alcuni passi dell’aborrito libro scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred, uniti alla rilettura delle cronache della scoperta del sito da parte dello spagnolo Juan de Grijalva e di alcune leggende locali sopravvissute alla scomparsa della civiltà Maya, lo portarono a trarre le conclusioni che furono motivo scatenante della lettera che portò ad incontrarci di nuovo. Quanto lui era stato appassionato del Medioevo giapponese, tanto io mi ero dedicato nei miei studi dilettanteschi alla conoscenza delle leggende delle civiltà precolombiane, studi che non avevano esitato a oltrepassare quello che la scienza ufficiale ritiene lecito, ma senza la credulità che oramai aveva soggiogato la mente di Renzo. Dal tono fanatico della sua lettera, accompagnata da un biglietto aereo per il Messico, in cui mi accennava ad un’eccezionale scoperta senza peraltro lasciar trasparire nessun altro indizio, capii che il motivo del suo ritorno in scena non era la gioia di rivedermi: aveva semplicemente bisogno del mio aiuto. Nonostante questa consapevolezza, la mia curiosità nel ritrovare un vecchio amico e vedere uno dei luoghi che avevo sempre sognato di visitare mi fece rompere ogni indugio. Due giorni dopo ero già in volo per il Messico e la mattina successiva un vecchio maggiolino Volkswagen adibito a taxi mi portò all’entrata della missione di Cancun ‘Alivio del Sufrimiento’ dove avrei finalmente rivisto Padre Peraldi. [continua…]

Sic Semper Tyrannis – seconda parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

  

2

 

Appena rientrò in casa Alessio attraversò il lungo corridoio e si recò velocemente nel salone accarezzò tutti e quattro i gatti ed infine aprì tutte le ante delle finestre, che erano chiuse da tanto, troppo tempo. L’aria frizzante di settembre invase la casa, e il sole che filtrava coraggiosamente dalle nuvole nere illuminò il salone facendolo respirare nuovamente, liberandolo dopo anni dalle tenebre.

Il semplice gesto di aprire le finestre, gli sembrò un altro passo verso la liberazione come se Alessio invitasse la presenza della madre ad abbandonare definitivamente la casa e lasciare che il figlio vivesse la sua vita.

Il grande tavolo di legno del salone era un rifugio di libri, sparsi per tutto il tavolo occupavano la sua intera superficie. C’era un po’ di tutto nella libreria della famiglia di Alessio, diversi manuali di medicina appartenuti a suo padre, classici sui greci e sui latini e tanta letteratura inglese che Antonia aveva accumulato negli anni.  Dopo aver consumato una cena veloce e rifocillato tutti i gatti, Alessio decise di regalarsi un brivido nella sua nuova vita, decise di affondare il ritrovato buon umore con una vecchia bottiglia di grappa che la madre aveva rinchiuso da mesi in una vetrina.

Mentre sorseggiava la grappa, Alessio si ricordò della bottiglia ritrovata alcune ore prima tra gli scogli. Così fece spazio tra i libri sparsi sul tavolo e accese una lampada da scrittoio per avere una visione migliore. La bottiglia era davvero antica forse aveva più di cinquant’anni, chissà quale tragitto aveva percorso fino ad imbattersi nelle correnti che l’avevano trasportata fino a lui.

Osservandola da vicino, grazie alla luce della lampada intravide perfettamente un foglio, il tappo della bottiglia era sigillato con della ceralacca e sembrava che lo scritto all’interno fosse in buone condizioni. Da buon bibliotecario, Alessio prese della carta e trascrisse alcuni dati, catalogando l’oggetto, con Data, Ora e Luogo del ritrovamento.

Era indeciso se aprire o meno la bottiglia, era curioso di conoscere il suo contenuto ma era anche affascinato dall’oggetto in se. Aprirlo avrebbe fatto perdere fascino a quel regalo venuto dal mare, in fondo da esperto di storia inglese sapeva benissimo che nel sedicesimo secolo la sovrana d’Inghilterra, Elisabetta I aveva emesso un decreto che vietava l’apertura di bottiglie che contenevano un messaggio, pena la morte.

Grazie ad internet Alessio aveva scoperto i milleusi dei messaggi nelle bottiglie, utilizzati come lettere d’amore, richieste d’aiuto e soprattutto per tracciare il percorso delle correnti oceaniche. Serpeverde sembrava il più interessato tanto che con le sue zampe cercava di far rotolare la bottiglia lungo il tavolo, Grifondoro e Tassodoro intanto si erano accoccolati sul divano, mentre Corvonero una gatta dal pelo nero scintillante stava facendo uno spuntino. Intanto al di fuori nella piazza del paese la banda dei vigili urbani si esibiva in un piccolo concerto, intonando sia dei classici che dei brani più recenti facendo felici i tanti anziani accorsi nella piazza e gli ultimi turisti rimasti in paese.

Ad un tratto un assolo di tromba fece sobbalzare la colonia felina all’interno della casa, Corvonero schizzò velocemente dietro una tenda, i due gatti che dormivano sul divano si rizzarono giusto un attimo e tornarono a dormire, mentre Serpeverde impaurito dal suono arrivato all’improvviso, sgommò velocemente tra i libri urtando la bottiglia che prese a rotolare dal tavolo. Alessio non poteva fare nulla, soltanto prepararsi all’impatto imminente, invece il tragitto della bottiglia verso il pavimento fu interrotto da un libro coperto da almeno due dita di polvere.

Era stato un libro di poesie di John Keats a salvare la bottiglia dal pavimento, quel salvataggio effettuato da uno dei maestri inglesi del romanticismo, aveva fatto accendere una sorta di lampadina nel cervello di Alessio. Avrebbe potuto regalare o condividere l’apertura della bottiglia con Loredana, la ragazza che lavorava con lui nella biblioteca comunale, sarebbe stato bello aprire la bottiglia e magari trovare all’interno un sonetto d’amore, con Loredana accanto. In quei momenti Alessio si scoprì romantico, in fondo sarebbe stato un buon modo per abbattere la timidezza e cercare di avvicinarsi a Loredana. A quasi quarant’anni non poteva più nascondersi dietro le sue paure, poteva davvero vivere la sua vita in modo differente, senza necessitamente immaginare di varcare l’ingresso per gli imbarchi ed abbandonare definitivamente l’isola.

Imbarchi che già una volta aveva utilizzato per affrontare gli anni di università nella grande città vicina dall’altra parte del mare. Furono anni difficili di isolamento, rapportarsi con la gente era sempre stato un problema per Alessio, il suo carattere schivo lo estraniava totalmente dalla vita al di fuori dell’università.

Aveva soggiornato per quattro anni in una casa con altri studenti, dove era riuscito a relazionarsi con il mondo esterno utilizzando uno strumento che prima non conosceva, internet. In quel periodo era sopravvissuto alla monotonia degli studi e l’isolamento imposto da se stesso, immergendosi nel tempo libero nei giochi di ruolo nella rete. Così la realtà e la fantasia si mescolavano in un mondo ricreato nella sua mente, alcuni ragazzi che Alessio frequentava durante gli anni universitari lo catalogarono come un ragazzo, timido ma con un piccolo dubbio, come se in realtà fosse affetto da autismo.

Invece, Alessio era un ragazzo normale, troppo introverso e legato ad un educazione maniacale che la madre gli aveva imposto. Antonia con la sua eccessiva protezione verso il figlio dal mondo esterno lo aveva rinchiuso in una teca di vetro fatta di libri e amore materno. Partito dall’isola per l’università quel mondo poteva tranquillamente cadere, incrinarsi e liberare il giovane Alessio.

Ma le regole imposte dalla madre al figlio, fecero in modo che Alessio invece di diventare uomo rimase il ragazzo che aveva appena finito la scuola superiore e si era subito iscritto alla facoltà di storia. Ad esempio Alessio non ha mai posseduto un cellulare, non ne aveva mai sentito il bisogno.

Ricordando quei tempi, Alessio si rammaricava di non aver vissuto la città, di aver speso troppo tempo rinchiuso nelle aule universitarie e non aver fatto nulla, seguendo quelle che adesso trovava delle regole ingiuste. Regole e regolamenti che riusciva ad annullare quando costruiva i suoi personaggi nei giochi on line. Tutto questo era fatto all’oscuro della madre, che secondo Alessio non avrebbe capito l’importanza di quello che fondamentalmente era solo un piacevole passatempo.

Più il lutto si stava esaurendo e più un senso di rivalsa stava crescendo dentro Alessio, forse Antonia non si era resa conto che il suo modo di fare stava castrando il figlio, invece la sua improvvisa dipartita lo stava finalmente liberando. Certamente non era facile dal giorno alla notte mutare, nonostante quella giacca nera adesso era solo un pezzo di stoffa perduto in mare, quella insignificante perdita l’aveva aiutato a muovere i primi passi verso un senso di libertà e consapevolezza. [continua…]

Incubi di primavera…

 

Siamo forse morti in questo 2013? Viscide creature sono infine strisciate dagli abissi per ghermirci e toglierci di mezzo una volte per tutte?

Niente di tutto questo, eccoci di nuovo qui, nonostante i sogni abbiano da anni predetto per noi questo destino. Evidentemente le stelle non sono ancora allineate nel modo giusto, gli dei ci concedono altro tempo per vivere questa parentesi mortale, in cui le visioni e i sogni che da sempre ci accompagnano, unica scappatoia dalla realtà in cui siamo stati imprigionati, prendono forma in lettere e carta, unico mezzo in grado di unire due mondi altrimenti incomunicabili.

Preparatevi allo sconvolgente seguito di Sic Semper Tirannis, il nuovo racconto di Luca, che vedrà la sua conclusione nei prossimi mesi. Il canto del Leviatano, che ormai si avvia verso il suo drammatico epilogo, dopo anni di presenza su queste pagine, lascia temporaneamente il posto ad un racconto breve, L’ultimo scherzo di Padre Peraldi, generato da esperienze personali di qualche anno fa, prova concreta che non tutto il male vien per nuocere.

Se dopo così lungo silenzio qualcuno è ancora in ascolto dei lamenti che filtrano dal sepolcro di pietra della cripta in cui abbiamo seppellito i nostri sogni ormai tanti anni fa, bentornati alla Cripta di Cthulhu, e come di consueto…

 Buona Lettura!

Sic Semper Tyrannis – prima parte

SIC SEMPER TYRANNIS

Un racconto di Luca Nisi

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1

 

La zuppa di pesce si stava raffreddando, Alessio pranzava da solo al piccolo ristorantino ai piedi del porticciolo dinanzi il mare. I suoi occhi erano fissi sul botteghino degli imbarchi, mentre il sole di settembre riscaldava l’aria. All’orizzonte alcune nuvole si spartivano quella porzione del cielo, erano nuvole nere ma per ora non sembravano minacciose.

La morte della madre lo aveva scosso profondamente, una dipartita così rapida e dolorosa che lo stava logorando interiormente. Fissava le navi in partenza cercando dentro di se quella voglia di andare via, di lasciare il suo lavoro da archivista e fuggire da quella vita diventata così grigia e monotona.

Terminata la zuppa lasciò che il mezzo di litro di bianco della casa gli riscaldasse l’animo, ma la cosa fu vana, l’unico effetto che gli recò fu un leggero senso di stordimento. Nonostante il sole non scottasse troppo rendendo la temperatura gradevole, Alessio iniziò una lunga passeggiata lungo il molo avvolto in una pesante giacca nera.

Era una domenica di fine settembre e la passeggiata lungo il molo tra le barche attraccate pullulava di gente, genitori che camminavano lasciando che i figli giovassero dei benefici dell’aria di mare, pescatori amatoriali e bagnanti alla ricerca degli ultimi scampoli di un estate ormai al tramonto.

Stonava in quel contesto Alessio, rinchiuso nel silenzio e avvolto in quella giacca nera, come a mostrare al mondo il suo lutto. Eppure Antonia, sua madre era scomparsa da un mese, tra l’altro slegandolo da un rapporto fin troppo morboso. Una malattia fulminante l’aveva portata via in giro di pochi mesi, lasciando Alessio solo nella grande casa materna, togliendogli quell’unica figura cara che gli era rimasta.

Passeggiava verso la fine del molo superando la rete scardinata che segnalava il termine della strada e l’inizio della scogliera, Alessio come faceva sempre fin da quando era un ragazzo attraversò la rete ed incominciò il suo saltellare tra i grandi blocchi incastrati nel mare.

Alessio nella vita faceva l’archivista nella biblioteca comunale e per la maggior parte della sua vita erano stati i libri i suoi più fedeli confidenti, non perché fosse un uomo scorbutico o di brutto aspetto e che il rapporto così profondo ed intenso che aveva avuto con la madre lo aveva reso timido ed introverso. Preferendo la compagnia dei libri e dei suoi quattro gatti a quella degli altri esseri umani.

Così mentre saltellava con grande attenzione su quei blocchi di cemento immaginava di essere in Irlanda del Nord percorrendo il selciato dei giganti alla ricerca di passaggi su altri mondi fantastici. Di tanto il rumore del mare o il garrito dei gabbiani sempre alla ricerca di cibo lo riportavano alla realtà, intanto le nuvole all’orizzonte erano aumentate e adesso minacciavo un temporale.

Alessio si fermò proprio sull’ultimo scoglio e dinanzi al mare aperto si accese una sigaretta, il vento si era alzato improvvisamente e la sigaretta cominciava a consumarsi velocemente, Alessio osservava l’orizzonte mentre la sigaretta bruciava fino a raggiungere il filtro, così senza pensare l’uomo la gettò versò il mare, una folata improvvisa la fece schizzare verso l’alto per poi ricadere tra le rocce.

Alessio la segui con lo sguardo, poi i suoi occhi furono abbagliati da un luccichio proveniente tra le rocce che formavano quel paesaggio di sassi. Si mosse velocemente tra i banchi abituato com’era a frequentare quel luogo, si accucciò lungo una parete di una grande macigno e scivolò delicatamente verso il basso. Un raggio del sole era riuscito a liberarsi dalle nuvole nere ed aveva colpito una vecchia bottiglia di vetro riflettendo impunemente nello sguardo triste di Alessio, facendo credere all’uomo di aver trovato un diamante prezioso, magari l’immaginario “cuore dell’oceano” del film Titanic.

Alessio osservò deluso la bottiglia, sperava di aver scoperto chissà quale tesoro fagocitato dal mare, la guardò alcuni istanti poi quando si rese conto che il vento stava trasportando anche un forte odore di pioggia decise di riprendere la via di casa.

Per caso diede un altro sguardo alla bottiglia, quando osservandola più attentamente si rese conto che al suo interno c’era custodito qualcosa. Allungò il braccio per afferrarla ma la giacca che tristemente indossava gli impediva di distendere perfettamente il braccio. Cosi decise di spogliarsi di quel lutto nero e finalmente libero nei movimenti riuscì ad afferrare la bottiglia, ed appena la prese tra le mani notò compiaciuto che conteneva un foglio al suo interno.

Nello stesso momento in cui Alessio si congratulava con se stesso del ritrovamento, la sua giacca nera volò via nel cielo, fece una giravolta seguendo il turbinio capriccioso del vento, che la fece cadere definitivamente nel mare.

Alessio rimase esterrefatto, non per aver perso la giacca e le sigarette, ma per la sensazione che aveva avuto osservando la scena. Difficile da comprendere come quella raffica del vento avesse ripulito l’animo dell’uomo eppure oltre alla giacca il vento si era portato via il malumore che da giorni stava affossando Alessio. Come se quel vento avesse ripulito il suo animo lasciandolo finalmente libero di respirare nuovamente, fu come una pioggia improvvisa di emozioni, si sentiva bene,  libero e vivo.

Alessio alloggiava in un palazzetto d’epoca sito nel cuore del paese, il vecchio edificio probabilmente affondava le sue radici nel medioevo e all’interno manteneva un mobilio talmente austero da far sembrare che il tempo in quella casa si fosse fermato. Il soffitto a travi custodiva colonie di ragni giganteschi, mentre antiche porte di legno scricchiolanti dividevano lo spazi in camere ricolme di povere e lenzuoli distesi sopra i mobili.

Con la morte della madre Alessio aveva preferito chiudere diverse stanze e lasciare in uso solo un piano della casa. La sala da pranzo era il regno dei gatti e dei libri, era il cuore pulsante della casa, l’unico luogo dell’abitazione dove si poteva scorgere una luce accesa. Serpeverde sonnecchiava sopra il divano, Grifondoro che era il più vecchio tra i gatti di Alessio dormiva sopra una sedia, Tassorosso un bel micio rosso dal pelo lungo cercava di catturare un ragno e vanamente lo aspettava davanti una crepa del muro della sala. Mentre Corvonero l’unica gatta della compagnia si stava stiracchiando vicino alla finestra che si affacciava sopra la piazza principale del paese.

Alessio aveva sempre immaginato la sua casa come la scuola del famoso maghetto, e in suo onore aveva chiamato i suoi gatti con i nomi della case della scuola di Harry Potter. Antonia sua madre, era stato il preside di quella casa, con la sua presenza austera ricordava davvero la figura di un insegnante. Era stata proprio Antonia ad incoraggiare il figlio alla lettura, a perdersi tra le pagine ingiallite dei libri trascurando quella vita più semplice e sbarazzina che i coetanei di Alessio vivevano all’esterno.

Così la vita del giovane era trascorsa tra i libri e gli studi sempre sotto il vigile controllo di Antonia, e adesso che era morta il figlio si era ritrovato solo con i libri, eppure fino a quell’istante di liberazione vissuto sulla scogliera, in quella casa Alessio sentiva ancora la presenza ingombrante della madre. [continua…]

Morire prima di me

MORIRE PRIMA DI ME 

Una poesia di Simone Ceccano

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Il tempo non ha significato, amici miei.

Quando affermo che in molti

Hanno provato a morire prima di me,

Non vuol forse dire

Che sono già morto da anni?

 

Accadde una notte di tanto tempo fa,

Danzavo incosciente al chiaro di luna,

Mentre complici falene sfioravano le mie dita…

 

Mi uccise la volgarità di una risata,

Mentre con gli occhi pieni di lacrime

Intonavo un requiem alla perduta giovinezza.

 

Fui crocifisso dal cinismo,

Di chi ha l’oro al posto del sangue

E vene di pietra,

Come torrenti ghiacciati.

 

Mi assassinò l’ottusa noia delle vostre vite,

Ore, giorni, anni buttati ai porci.

Miele in pasto ai maiali.

Nettare immolato allo sterco.

 

Fu così, un giorno che non ricordo,

Che varcai l’ultima soglia con un sorriso,

Lasciandomi alle spalle

Insensati grugniti di bestie.

 

Senza che fosse versata una lacrima.

Senza che nessun cuore fosse spezzato.

La paura

LA PAURA 

Una poesia di Luca Nisi

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La paura è un paradiso amaro,

è un vento gelido che violenta il cielo,

è l’ombra cupa della mia anima.

La paura, troppo sole e sangue caldo,

un’onda nera su una spiaggia salata,

profumo di pagine bagnate di un libro.

La paura divora ed ingoia,

come le onde scure di un immenso mare,

assalito da una pioggia obliqua e battente.

Ma quando il mare dimentica,

anche noi dimentichiamo di avere paura.