Sic Semper Tyrannis – quarta parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

 

4

Come rientrò in casa Alessio cercò di non far troppo rumore, non voleva svegliare l’anziana madre che dormiva al primo piano. Posò la giacca nell’armadio della sua camera e poi si diresse nel salone principale. I suoi quattro gatti lo accolsero miagolando, Alessio li accarezzò uno alla volta lasciando per ultima MacchiaNera, l’unica femmina del gruppo. 

Il tavolo della sala perfettamente ordinato custodiva un piatto di pasta al ragù che l’anziana madre di Alessio gli aveva lasciato come cena. Mentre mangiava il piatto di pasta ancora caldo, l’uomo navigava con il suo smarth-phone alla ricerca di qualsiasi notizia inerente alla Cappella di San Martino e alla frase attribuita a Marco Giunio Bruto.

Un bicchiere di vino bianco accompagnava la sua ricerca, trovò altre informazioni sulla vecchia cattedrale. Attualmente il sito era diventato il fulcro di uno scavo archeologico e punto d’interesse turistico. La zona adiacente della cattedrale era situato in un terreno dove recentemente dopo alcuni scavi archeologici erano affiorate alcune tombe d’epoca medioevale.

Si stava facendo tardi ed Alessio continuava imperterrito le sue ricerche sulla cattedrale, all’improvviso una figura emerse dal buio facendo il suo ingresso nel salone. “Alessio, sei ancora in piedi.” Disse Antonia, l’anziana madre dell’uomo. “Si mamma, sto terminando alcune ricerche.”

“Ti ho aspettato tutto il giorno in tabaccheria, perché non sei venuto a darmi il cambio? Sono vecchia non ce la faccio a fare tutta la giornata.” Alessio continuava a guardare  il suo cellulare, come se non volesse prestare attenzione a quello che diceva la sua anziana madre.

“Domani mattina potresti aprire tu il negozio? La casa è molto sporca e vorrei pulirla, inoltre credo che chiuderò alcune stanze, tanto non le usiamo.” Alessio continuava a fissare il suo telefono. “Non posso aprire la tabaccheria domani devo fare dei giri. Forse vengo nel pomeriggio.” La madre non provò a ribattere nemmeno, erano anni che aveva rinunciato a tentare di dialogare con lui.

Da quando era tornato dalla città quel figlio aveva portato solo problemi. Incapace di laurearsi, in quattro anni passati fuori casa aveva quasi dilapidato il patrimonio familiare e soltanto il taglio dei fondi lo avevano costretto a tornare sull’isola. Svogliato e poco propenso ad aiutare l’attività di famiglia, Alessio trascorreva tutte le sue giornate al bar con gli amici, degli scapestrati come lui, o si perdeva per ore in spiaggia cercando di abbordare turiste americane.

Inoltre per sua sfortuna la madre non riusciva a convincere il figlio a trasformare la loro vecchia casa in un “bed and breakfast” dove affittare delle camere ai turisti. Quel ragazzo era totalmente cambiato da quando era tornato dalla grande città. L’esperienza universitaria doveva essere un punto di partenza per Alessio, che lo avrebbe dovuto far diventare uomo, valorizzarlo con un prestigioso titolo di studio e in futuro gli avrebbe permesso di cercare un buon posto di lavoro e farsi una famiglia.

Invece era tornato dopo quattro anni con nessun pezzo di carta d valore, anzi, era rientrato sull’isola pieno di debiti di gioco e senza la macchina che i genitori gli avevano comprato quattro anni prima per aiutarlo a raggiungere l’università.

Del vecchio Alessio, rimaneva solo il suo sconfinato amore per i suoi gatti. Quei quattro cuccioli presi quando Alessio era un ragazzino ora erano divenuti gatti adulti, purtroppo secondo Antonia i gatti erano cresciuti mentre il figlio era rimasto un bambino capriccioso.

Antonia si trasportò faticosamente in cucina dove Paperone un micio dal pelo rosso stava sonnecchiando sopra una sedia, prese un bicchiere d’acqua, diede uno sguardo fuori la finestra, la piazza era completamente vuota e buia, poi lentamente rientrò nelle tenebre da dove precedentemente era apparsa.

La mattina seguente stranamente Alessio decise di alzarsi relativamente presto, dopo aver sbrigato alcune faccende, come lavarsi e dar da mangiare ai gatti,discese in strada e aprì la cantina adiacente alla sua abitazione. In quei paesi soprattutto nelle casa di origine medievale, le stalle per secoli erano state adibite a conservare la legna e far riposare i cavalli. Adesso nei tempi moderni venivano utilizzate come garage e ripostigli. Alessio superò senza fatica della legna lasciata malamente accatasta su una parete tempo prima e raggiunse il vecchio motorino, ricordo ancora vivo e vegeto della sua gioventù.

Il suo bolide era un vecchio SI della Piaggio ancora funzionante. Alessio all’epoca lo aveva verniciato di nero, modificato marmitta, motore e variatore. Quel vecchio trabiccolo degli anni novanta poteva ancora raggiungere senza fatica i settantacinque chilometri all’ora. Prese una tanica di benzina e ne travasò un po’ di contenuto in un’altra vuota, poi aggiunse dell’olio da una bottiglia andando a formare la giusta miscela per  il motore del motorino. Alla fine riempì il serbatoio, aprì la valvola dell’aria e fece girare i pedali e dopo pochissimo il vecchio motore del SI scoppiettò per tutto il garage.

Alessio indossò la giacca nera, inforcò un paio di occhiali scuri e dopo aver chiuso il garage montò sopra il motorino sfrecciando in direzione sud, alla ricerca della vecchia cattedrale. La sera prima si era studiato la strada su Google Maps e si era convinto che era necessario andare a visitare quella cappella. Anche se non sapeva cosa dovesse cercare, sempre se c’era qualcosa da scovare, e poi era sempre meglio che rinchiudersi nella tabaccheria con la madre ad ammuffire. Non poteva rinunciare alla fantasia che quel messaggio nella bottiglia gli aveva acceso nella mente. Alessio si era immaginato che forse avrebbe scoperto un tesoro d’epoca medioevale e una volta recuperato il bottino avrebbe potuto finalmente lasciare quella maledetta isola e ritornare alla civiltà.

Il vento caldo di giugno accompagnava il tragitto di Alessio. L’estate era alle porte e l’isola iniziava a riempirsi di turisti. Tramite internet era riuscito a prenotare una visita alla cattedrale aggregandosi ad un gruppo guidato che avrebbe visitato l’antica chiesa e le tombe adiacenti.  Il vecchio motorino dalle ruote grandi faceva cantare la marmitta per la strada di campagna che saliva fin sopra la parte più alta dell’isola, dove era stata costruita la cattedrale. Il sole si rifletteva sugli occhiali scuri di Alessio perdendosi nella campagna adiacente, nel cielo non c’era neanche una nuvola era l’estate che faceva il suo ingresso prepotentemente.

Le cicale nascoste tra i pini tipicamente mediterranei cantavano freneticamente, mentre Alessio affrontava le ultime curve che lo avrebbero portato fino all’ingresso della zona archeologica. L’antica cattedrale era in realtà una rudere, il tetto era quasi tutto andato distrutto, miracolosamente la parte della Cappella di San Martino era rimasta intatta. Alessio aveva visionato alcune foto su internet, ma non aveva visto niente che poteva legare con la restante parte del messaggio della bottiglia.

Alessio legò il motorino proprio accanto l’ingresso del sito archeologico e raggiunse un gruppetto di persone che si erano messe in circolo ad ascoltare una giovane donna dai capelli biondi. Alessio li raggiunse scusandosi per il ritardo. La donna barrando anche il nome di Alessio Martini, concluse l’appello sui partecipanti e annunciò che la visita era in partenza. Alessio si mise vicino la guida perché voleva approfittare dell’esperto per fare alcune domande. [continua…]

L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – seconda e ultima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

 

 

Il tempo non aveva cambiato di molto Renzo, la tonaca nera che indossava con la sciatta eleganza che lo aveva sempre contraddistinto gli conferiva un’aura forse più austera, ma nel complesso familiare. Mi accolse con il consueto abbraccio vigoroso e manesco e per un attimo mi sembrò di essere tornato indietro di vent’anni, finché non intravidi uno strano fuoco ardere nei suoi occhi, che istintivamente mi fece rabbrividire. Gli eventi che seguirono furono convulsi e cercherò di riassumerli nel modo più breve possibile, in modo tale che i miei sentimenti non mi impediscano di mantenere la lucidità necessaria.

Nella lettera che mi aveva scritto, Padre Peraldi non aveva esitato ad accostare il nome dell’unica città Maya ancora abitata scoperta da Juan De Grijalva, Tulum, con l’aborrito nome di Cthulhu, il dio dormiente nella sommersa città di R’lyeh di cui parla il Necronomicon. Secondo Renzo, l’ultima città Maya portava proprio il nome del dio, seppur travisato dalla lingua indigena. In un passo del Necronomicon si asseriva che in alcune culture, nei tempi antichi, un determinato giorno di un determinato anno, che ricorreva dopo un certo ciclo di decadi in cui il pianeta Venere è particolarmente visibile dalla Terra, e all’osservatore attento sembra risplendere di un colore inconsueto, donne e uomini consacrati dai sacerdoti venivano legati ad uno scoglio percosso dai flutti del mare, secondo un preciso rituale. La recita di formule stabilite, unita al canto di particolari uccelli sacri, attraversava la distesa dell’Oceano fino all’orizzonte, penetrando le profondità marine e destando il dio dormiente, che rispondeva al richiamo per poi emergere dalle acque econsumare il suo orrendo sacrificio. In cambio delle vite a Lui offerte, la città riceveva ricchezza e prosperità. Il perpetrarsi di questa barbara tradizione, secondo Renzo, aveva salvato Tulum dalla decadenza e dall’abbandono che invece aveva colpito le altre città dei Maya.

Dopo i frettolosi saluti, fui letteralmente strattonato nel suo studio all’interno della missione. Con mia somma sorpresa, nella stanzetta con un’unica finestra a cui si accedeva soltanto dalla biblioteca fummo accolti da uno strano suono che non avevo mai sentito prima di allora. L’autore di quel verso bizzarro non era altri che l’uccello dalle verdi piume che si agitava impaziente all’interno di una grossa gabbia che Padre Peraldi aveva appeso al soffitto dello studio.

 

“Che diavolo significa tutto questo?” protestai di fronte a quello che era palesemente una rara specie di tucano di grosse dimensioni, con una livrea inconsueta che non avevo mai visto prima.

 

“Non è meraviglioso?” esclamò il mio amico con tono stentoreo mentre l’uccello, innervosito dalla nostra presenza, continuava a ripetere il suo verso all’infinito.

 

Si trattava di una rarissima specie di tucano originaria soltanto di quella parte dello Yucatan. Stephens e Catherwood ancora accennavano di aver visto alcuni di questi volatili aggirarsi per le rovine di Tulum ai tempi del loro viaggio, ma dai primi del ‘900 era certo che questa specie dal colore così particolare si fosse ormai estinta del tutto. Padre Peraldi mi raccontò come avesse miracolosamente trovato quell’unico esemplare nel tronco cavo di un albero non lontano dal complesso delle rovine. Di per sé sarebbe già stata un’incredibile scoperta, ma ovviamente non era tutto.

Un mese prima, un amico sacerdote aveva spedito a Renzo un manoscritto da Cuba, che prontamente mi fu mostrato per dare soddisfazione alla mia curiosità. Era una testimonianza inedita, a quanto pare redatta di proprio pugno nientemeno che da Juan de Grijalva, di cui non si era mai venuti a conoscenza prima e che era stata rinvenuta nelle rovine di un monastero, al sicuro all’interno di uno scrigno di metallo. Leggendo lo spagnolo antico in cui era redatta la pergamena a fatica, nonostante avessi qualche dimestichezza con l’idioma, non potei in alcun modo nascondere il mio stupore.

Grijalva, durante la sua breve visita, raccontava di aver assistito ad una misteriosa cerimonia, celebrata dagli indigeni in una notte particolare, durante la quale la stella di Venere risplendeva nel cielo con una luce e un colore che gli Spagnoli non avevano mai visto prima. Due vergini e due giovinetti, benedetti dai sacerdoti nel Tempio del Dio Discendente, erano stati poi legati ad uno scoglio in riva al mare. Tutti gli abitanti di Tulum si erano poi radunati sulla spiaggia, vestiti a festa ed ornati di piume verdi e monili di ogni genere. Al capitano e a due dei suoi ufficiali era stato permesso di assistere alla cerimonia, mentre gli altri marinai sarebbero dovuti rimanere sulla nave ormeggiata poco lontano. Assicuratisi che tutti gli Spagnoli tranne i tre a cui era stato consentito di rimanere fossero tornati a bordo, i sacerdoti avevano portato gabbie al cui interno si agitavano decine di uccelli dal grosso becco allungato e dalla livrea del colore dello smeraldo.

Sotto gli occhi attoniti degli Spagnoli, gli officianti avevano infine iniziato ad intonare una litania in una lingua sconosciuta, che a Grijalva e i suoi era parsa completamente differente da quella con cui avevano cercato di comunicare con loro. Quasi all’unisono gli uccelli avevano allora iniziato ad emettere il loro caratteristico verso profondo, alto e monotono, che aveva solcato le onde lontano, fino all’orizzonte. Il suono fu udito persino dai marinai rimasti confinati sulla nave. Poi erano passati istanti interminabili, mentre il timbro monotono degli uccelli si era fuso con l’incessante lamento dei sacerdoti in una cacofonia infernale. Grijalva e i suoi avevano tremato mentre la vista e i sensi pian piano iniziavano a confondersi.

Infine, a largo, i flutti avevano cominciato a muoversi improvvisamente, formando un gorgo di proporzioni immani. Anche i marinai sulla nave lo videro ed iniziarono a gridare in preda al terrore mentre una figura indistinta e colossale, che sembrava avere molti tentacoli ed immani ali, iniziava ad emergere grondante dalle acque per avvicinarsi alla riva, verso lo scoglio dove erano state legate le quattro vittime. A quella vista, Grijalva e i due ufficiali risalirono velocemente sulla scialuppa, tornarono a bordo della nave e lasciarono più velocemente che potevano Tulum e gli empi riti dei suoi abitanti. Gli indigeni, come in trance, rimasero a contemplare la mostruosa figura che si avvicinava a grandi passi verso di loro e non tentarono neppure di fermarli.

Tornato a Cuba, per paura di essere preso per pazzo, dopo aver pagato profumatamente i marinai per il loro silenzio, Juan De Grijalva aveva nascosto al sicuro in un monastero la testimonianza  di quella notte, vergata di suo pugno proprio sulla pergamena che in quel momento stavo tenendo tra le mani. Il prezioso documento avrebbe potuto con tutta probabilità rimanere nascosto in quel rifugio sicuro per sempre; invece il destino aveva voluto che il fortuito ritrovamento di un sacerdote curioso e dall’animo semplice lo facesse finire in possesso di Renzo Peraldi, l’uomo che in quel momento mi guardava di nuovo con lo sguardo esaltato che già mi aveva colmato di inquietudine. La luce delle lampade dello studio si rifletteva grottescamente sulla testa calva del mio ospite, mentre l’uccello in gabbia aveva ricominciato ad emettere il suo verso stridulo.

 

“Capisci ora perché ti ho fatto venire fin qui?” esclamò a voce alta.

 

“A questo hanno portato i miei studi degli ultimi dieci anni e poche settimane fa la scoperta di quel volatile creduto estinto ha quadrato il cerchio. Non può esserti sfuggita l’analogia tra questo racconto e quanto ti ho scritto di aver letto nel Necronomicon. Hai capito a quale entità che nemmeno oso pronunciare in questo luogo di Dio sacrificavano i sacerdoti di Tulum fino a 400 anni fa in cambio di ricchezza e prosperità, prima che gli Spagnoli spazzassero via tutto! Il Tempio del Dio Discendente, così lo abbiamo chiamato! Sciocchezze! Il dio non si tuffava dalle acque ma sorgeva da esse!”

 

Cercai per cortesia di non far trasparire l’ansia e il disgusto che il suo tono stentoreo e folle mi suscitavano in quel momento. Non potendo credere che fosse uno degli scherzi di cattivo gusto che amava fare in gioventù, né che fosse giunto a tanto, persino a farmi venire in Messico, per il solo piacere di prendersi gioco di me, non mi restava che ammettere che Padre Peraldi aveva perso completamente il senno. Dovevo prendere tempo assecondandolo.

 

“Sono felice di rivederti.” Risposi senza troppa convinzione.

 

“E sono ancora più felice del fatto che hai deciso di rendermi partecipe di una così incredibile scoperta, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirmi… Qual è il vero motivo per cui mi hai fatto venire fin qui? E in che modo potrei esserti d’aiuto?”

 

La risposta Renzo me la diede solo qualche ora dopo, mentre passeggiavamo per le rovine che aveva insistito a farmi visitare. Fu quello l’elemento definitivo che mi fece voltare per sempre le spalle al mio vecchio amico e tornare frettolosamente in Italia il giorno stesso.

Avrete capito anche voi, Renzo aveva intenzione di replicare il rituale e aveva bisogno di un complice un minimo qualificato perché tutto andasse per il verso giusto. Aveva scoperto che la notte seguente, come ogni 30 anni, Venere sarebbe stata in quella posizione particolare descritta nel Necronomicon e nella lettera di Grijalva. Naturalmente nei suoi piani sarei stato io ad aiutarlo ad officiare il rito, in qualità di lettore delle empie formule che i miei studi sugli antichi linguaggi mi avrebbero permesso di pronunciare con la corretta fonetica, mentre lui nel frattempo avrebbe costretto l’uccello ad emettere il particolare richiamo per Colui che dimora negli abissi. Perché il cerchio si chiudesse senza arrecare nessun danno agli officianti, mancava solo la vittima designata, che Renzo mi confessò aver scelto nella sua perpetua, tale Valeria, una prostituta che anni prima aveva salvato dalla strada e che gli era particolarmente fedele. Il suo piano era di drogarla, poi l’avremmo trasportata in barca  fino alle rovine, verso un atroce destino.

Nessuno potrà biasimarmi di non aver corso il rischio di diventare corresponsabile di un simile orrendo delitto, ordito solo per appagare l’ego insoddisfatto da decenni di Renzo Peraldi.

Non ebbi più notizie di lui per anni, finché non diventammo entrambi vecchi e finché non ricevetti la sua seconda e ultima lettera, quella che mi ha fatto tornare qui per rendere l’estremo saluto alla sua bara vuota. Renzo dovette aspettare altri trent’anni per mettere in atto i suoi propositi. Ma stavolta, stanco della vita, scriveva di essere determinato a sacrificare se stesso e nessun altro pur di avere il privilegio di assistere agli effetti di quell’antico rituale, giocando in tal modo il suo ultimo scherzo al destino.

Le conclusioni della lettera e il sentimento di lealtà che non mi ha mai abbandonato nel lungo corso degli anni furono motivazioni sufficienti a spingermi a varcare ancora una volta l’Oceano… Ma arrivai troppo tardi. Conoscendo Renzo, doveva aver previsto anche questo.

Non sono riuscito a collezionare molti dettagli sulla sua morte, se si eccettuano le testimonianze degli scarsi testimoni oculari, che possono giurare che il mio amico fosse alle rovine di Tulum la notte della più incredibile e unusuale tempesta di sempre. I guardiani del sito archeologico, la cui sorveglianza Renzo aveva eluso facilmente, da fine conoscitore dei luoghi qual’era, parlano di un immane gorgo formatosi misteriosamente a largo nella notte, accompagnato da un forte vento che aveva abbattuto gli alberi e da improvvisi rovesci di pioggia torrenziale. La tempesta apparve all’improvviso così come scomparve, dopo aver abbattuto la sua furia sulla costa per un’ora scarsa. Tutte le testimonianze e i bollettini metereologici confermano come il cielo fosse completamente sgombro di nubi e il mare calmo come una tavola, se si eccettua quella brusca e violenta interruzione. Sempre i guardiani mi raccontarono di esser stati svegliati pochi istanti prima dell’inizio della tempesta da un suono alto e profondo che squarciava la notte e che avevano identificato non a torto come il verso di qualche strano uccello che veniva dalla spiaggia. Precipitatisi lì, fecero appena in tempo a vedere il mio amico, già liberatosi dal suo abito talare e dalle pene terrene, affrontare noncurante le onde a nuoto in direzione del gorgo, per poi sparire per sempre tra i flutti.

Le guardie terrorizzate se la diedero subito a gambe e non possono aggiungere altro alla nostra storia, nè il black out che ha colpito il sito e la vicina Cancun aiuta a rendere attendibili le indiscrezioni di alcuni pescatori che quella notte erano in mare poco lontano dall’epicentro del fenomeno. Eppure non mi sento di ignorare i loro racconti, per quanto fantasiosi possano sembrare,  che dichiarano di aver scorto quella stessa notte una sagoma indistinta, di proporzioni colossali, emergere dall’ immane varco spalancatosi nel ventre stesso del mare, spiegare grandi ali membranose e chinarsi come per raccogliere con il braccio smisurato un relitto tra le onde, per poi scomparire poco dopo, tornando da dove era venuta.

 

Sic Semper Tyrannis – terza parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

  

3

 

Così la mattina seguente decise di prendere coraggio e materializzare quell’idea avuta la sera prima, condividere con Loredana l’apertura della bottiglia fagocitata dal dio Nettuno. Discese gli scalini di pietra che immettevano nella piazza principale, era una giornata particolare quella, gli ultimi turisti si preparavano ad abbandonare l’isola, dal belvedere si vedeva la zona degli imbarchi riempirsi di vita, auto e pullman che lasciavano le persone pronte ad imbarcarsi.

Il sole stava continuando la sua salita verso lo zenit, le nuvole erano sparite e l’aria frizzante di settembre continuava a rinfrescare l’isola. Alessio attraversò la piazza e si fermò come al solito a prendere un caffè al bar e poi si incamminò lungo Via Roma per raggiungere la biblioteca comunale. La biblioteca era situata all’interno del comune, occupava parte del secondo piano, proprio accanto agli archivi comunali.

Il paese racimolava all’incirca ottomila abitanti ma solo nella stagione estiva toccava tetti di sovrappopolazione, durante l’inverno era poco popolato e la vita scorreva lenta. Alessio abitava nel quartiere storico del paese situato sopra una delle colline che dominavano l’isola, mentre era nella zona degli imbarchi e delle spiagge di sassi bianchi che l’isola dava il meglio di se, con ristoranti caratteristici ed un panorama da mozzare il fiato.

La biblioteca era un luogo decisamente poco frequentato, un dedalo di scaffali ricolmi di libri costituiva la biblioteca ad eccezione della sala lettura ed un angolo adibito per le letture di gruppo.  Durante l’estate la biblioteca era frequentata da universitari in vacanza alla ricerca di libri, che fuori di lì sarebbero costati una fortuna. Ogni tanto c’era qualche visitatore occasionale che faceva ricerche catastali, oppure la sala delle letture di gruppo dove settimanalmente si cercava di coinvolgere i più piccoli.

Quella mattina sembrava una delle classiche giornate in cui la biblioteca assomigliava ad un cimitero, anche perché il lunedì l’apertura era posticipata alla quattro del pomeriggio. Così dopo aver svolto delle pratiche e sistemati gli scaffali con i libri riconsegnati durante il fine settimane, Alessio prese coraggio e si avvicinò a Loredana.

Si avvicinò lentamente alla ragazza salutandola cordialmente. Loredana era intenta a sistemare lo spazio dedicato ai bambini spostando delle piccole sedie di plastica colorate e preparando delle letture. Loredana era una ragazza dai lunghi capelli biondi, un viso sempre sorridente nonostante un handicap alla gamba sinistra che la faceva  zoppicare vistosamente. La ragazza rispose al saluto con il suo solito sorriso, erano diversi anni che lavoravano insieme ma nonostante gli anni passati sotto lo stesso tetto lavorativo tra i due non c’era molta confidenza.

A Loredana piaceva fare le torte, era una patita, ne sfornava di tutti i tipi e quando c’erano gli incontri con i bambini ne portava sempre una. Probabilmente se non fosse stato per quell’handicap avrebbe avuto una vita diversa, aveva sempre pensato tra se Alessio.

“Buongiorno Loredana, mi piacerebbe mostrarle questa bottiglia.” Loredana osservò incuriosita gli occhi neri di Alessio.

“Di cosa si tratta, Dottor Martini?” rispose sorridendo la ragazza, prossima ai quarant’anni.

Alessio solo in quel momento si rese conto che in tutti quegli anni si era fatto chiamare Dottore da quella ragazza, un titolo totalmente inutile in quel contesto. Alessio rimase alcuni secondi muto, leggermente imbarazzato poi prese coraggio e riprese a parlare.

“La prego Loredana, vorrei chiederle se può chiamarmi semplicemente Alessio.” Fece una pausa. “Anzi vorrei sapere se le posso dare del tu?”

Loredana sorrise come suo solito, ed annuì mostrando anche un leggero imbarazzo, come se quella richiesta fosse una sorta di liberazione anche per lei.

Alessio tossì rompendo l’imbarazzo. “Ti volevo mostrare questa bottiglia, l’ho trovata in mare ieri mattina, si tratta di una bottiglia con dentro un messaggio, dall’usura potrebbe avere anche cinquanta o sessanta anni.”

Loredana prese la bottiglia e la guardò alcuni istanti poi la restituì ad Alessio. “Vuoi aprirla? Adesso?” Alessio imbarazzatissimo, rispose quasi balbettando. “Si, mi piacerebbe.” Fece una lunga pausa. “Condividere con te questa scoperta.”

Loredana si scoprì felice del gesto di Alessio. Accolse favorevolmente l’idea del collega. Insieme si spostarono nell’ufficio della biblioteca, un piccolo settore con una stanza contente una scrivania con un personal computer, un piccolo bagno e il lungo e stretto balcone adibito come zona per i fumatori.

Alessio prese da una busta di plastica un suo vecchio asciugamano e ci avvolse all’interno la bottiglia, dopo la poggiò in terra e sempre dalla busta prese un martello, infine colpì un paio di volte la bottiglia avvolta nell’asciugamano.

La ragazza si teneva appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, osservava incuriosita la scena. “E’ emozionante tutto questo?” disse rivolgendosi ad Alessio che intanto apriva con cautela l’asciugamano.

“Credo che sia una cosa curiosa, difficilmente troverò un altro messaggio nella bottiglia.” Spiegò a Loredana mentre con cura spostava i cocci di vetro nella busta e poi con particolare cura prese il foglio arrotolato ormai libero dalla sua custodia di vetro.

Una volta preso il foglio si alzò in piedi e fece alcuni passi verso la ragazza. “Mi farebbe piacere, se fossi  tu a leggere il messaggio.” Disse con un espressione del viso imbarazzata. Loredana prese il foglio tra le mani e srotolo con calma, Alessio era sicuro che si trattasse di un sonetto d’amore, così chiuse leggermente gli occhi aspettando di ascoltare la voce di Loredana recitare parole d’amore.

“Sic Semper Tyrannis. Cappella San Martino” Lesse ad alta voce Loredana. Alessio a quelle parole ebbe una specie di sussulto, una vertigine improvvisa e quando aprì gli occhi la stanza gli sembrò girare. Forse era solo un’impressione ma si sentiva diverso, cose qualcosa stava cambiando intorno a lui.

 Quella sensazione durò alcuni secondi subito dopo si fece consegnare il foglio e lo lesse almeno cinque volte esaminandolo minuziosamente. Prese il foglio e si sedette sulla scrivania, dalla tasca della giacca prese un altro foglio, e completò l’archiviazione della bottiglia, annotando la scritta rinvenuta nel messaggio.

Loredana cercò d’intraprendere una conversazione con Alessio, ma adesso sembrava esser tornato il Dottor Martini, così senza indugiare troppo tornò zoppicando a sistemare la zona lettura.

Trovare un messaggio nella bottiglia ha il suo fascino, facendo varie ricerche nessuno trai tanti  messaggi che il mare aveva restituito era simile a quello trovato dal bibliotecario. L’uomo decise di custodire il foglio ritrovato all’interno di un vecchio libro, lo ripose con cura tra le pagine di una vecchia edizione dell’Amleto. Intanto mentre riprendeva la sua routine lavorativa cercava di capire il significato di quel messaggio. 

“Sic Semper Tyrannis. Cappella San Martino” Riflettendo bene sull’isola c’era una vecchia cattedrale chiamata Santa Margherita, in disuso da secoli e per giunta devastata dagli attacchi aerei dell’ultima guerra. Era chiusa al pubblico quando gli alleati per errore la centrarono con l’artiglieria dei loro bombardieri. La cattedrale era un edificio a tre navate con un abside ed una piccola cappella decorata da intonaci dipinti e se Alessio non ricordava male era proprio dedicata a San Martino.

Quale strana coincidenza, che proprio su una parte selvaggia dell’isola esisteva da almeno l’anno mille le rovine di una cattedrale e al suo interno c’era ancora intatta una cappella dedicata al pontefice Martino. Possibile che la Cappella San Martino fosse la stessa segnalata sul messaggio della bottiglia. Però che connessione aveva con la frase attribuita a Bruto nell’atto di uccidere il patrigno Giulio Cesare?

“Così sempre ai tiranni. Cappella san Martino” continuava a ripetersi nella testa il bibliotecario, intanto senza accorgersene indossava nuovamente una giacca nera e salutando Loredana mentre lasciavano la biblioteca si rivolse alla ragazza dandole del lei. [continua…]

L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – prima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

Se voglio anche solo provare a spiegarvi il motivo del mio fastidio e l’ineliminabile sensazione di inquietudine che provo nel vedere tutti questi turisti sciamare come mosche attorno ad un cadavere in decomposizione, mentre osservo lo splendido blu del Mar dei Caraibi lambire la spiaggia sottostante alle maestose rovine del Castillo…

Se desidero che non vi prendiate gioco di me quando vi confesso che il semplice suono del canto di un tucano può gettarmi nel terrore più totale, neanche fosse il rintocco delle campane del Giorno del Giudizio… Allora non posso fare a meno di parlarvi di chi fosse Padre Peraldi, l’uomo la cui bara mi aspetta silenziosa e vuota nella chiesa della missione di Cancun che fu la sua ultima dimora terrena.

Oggi è il giorno del suo funerale, il tragico evento che mi ha fatto tornare qui alle rovine di Tulum, all’estremità meridionale del Messico, dopo trent’anni dal mio ultimo soggiorno qui e dalla mia conseguente e precipitosa fuga che mi portò a tornare in Italia e a forzarmi di dimenticare chi fosse quell’uomo che un tempo, forse con troppo azzardo, avevo chiamato amico.

Solo la sua ultima lettera, un vero e proprio testamento di chi aveva irrimediabilmente perduto la sanità mentale, mi ha spinto a vincere ogni paura e riluttanza e a salire su di un aereo per varcare di nuovo l’Oceano e rendergli l’estremo pietoso saluto.

Quanto tempo è passato dall’ultima volta che sono stato qui, nel ’60. Allora non c’erano tutti questi turisti con i loro bus chiassosi e volgari, ci si poteva arrivare solo via mare; anche se il complesso di rovine non era minimamente paragonabile allo splendido tesoro avvolto dalle spire della giungla, che eccitò la fantasia di John Lloyd Stephens e di Frederick Catherwood quando giunsero qui nel 1843, il luogo conservava ancora quel suo fascino arcano e misterioso che condusse Padre Peraldi a compiere il gesto che avrebbe portato alla sua morte terrena… E forse anche alla dannazione della sua anima.

Conosco Padre Peraldi da quando avevamo vent’anni. Rampollo di un’abbiente famiglia toscana trasferitasi a Roma, i soldi non gli erano mancati fin da piccolo, come pure una certa dose di singolare intelligenza, seppur volta troppo spesso a scopi sbagliati. Sembra un volgare luogo comune dire che il denaro non porta la felicità, ma se devo pensare alla suprema incarnazione di questo luogo comune non posso che ricordare Renzo, questo era il suo nome di battesimo.

Non certo di bell’aspetto, una precoce alopecia e la conseguente perdita totale dei capelli aveva contribuito a plasmare quell’immagine sgraziata e quasi scimmiesca che non gli aveva fatto riscuotere facilmente i favori dell’altro sesso. Nonostante questa disgrazia avesse compromesso nel profondo la fiducia che aveva in se stesso, Renzo aveva deciso di sfruttare quel tanto di intelligenza che almeno la Natura gli aveva donato e le risorse economiche della famiglia in molteplici e poliedriche passioni, quali la musica, la filosofia, lo studio della Storia, dell’archeologia e anche  di talune discipline rifiutate dalla scienza ufficiale.  Proprio quest’ultima passione lo aveva portato a possedere una rarissima ed inestimabile copia della traduzione in latino dell’infame Necronomicon, la cui lettura ossessiva nell’arco dei decenni successivi sarebbe stata cagione della tragedia che sto cercando di raccontare in queste pagine, che lascerò come suo ultimo epitaffio. Fallito il tentativo di riuscire nella musica, in cui non era minimamente portato, frustrati i suoi sforzi di conseguire un qualsivoglia successo accademico con i suoi studi, o di ottenere una pubblicazione delle sue ricerche fin troppo manieristiche sul medioevo giapponese, Renzo aveva rivolto tutti i suoi sforzi in un compulsivo collezionismo di tutto ciò che amava.

La sua casa di Roma era diventata un piccolo museo di armature giapponesi, elmi, berretti e divise degli eserciti più disparati, a partire dall’800 per finire ai due conflitti mondiali, per tacere dell’imponente raccolta di libri in edizioni rare e costose che non facevano altro che alimentare la sua frustrazione e il suo disappunto nel non essere riconosciuto tra quei grandi nomi e quei personaggi che riempivano la sua solitaria fantasia.

Si, perché Renzo Peraldi in fondo non era altro che un uomo solo. L’uso sporadico di psicofarmaci per lenire i suoi frequenti stati depressivi non avevano fatto altro che rendere inevitabilmente instabile il suo equilibrio psicofisico. Da questo erano scaturiti atteggiamenti che pian piano gli avevano alienato molte delle sue vecchie amicizie, specie quando Renzo si abbandonava a scatti d’ira, atteggiamenti violenti e maneschi che non riusciva a controllare, alternati a crudeli scherzi di dubbio gusto che, dopo aver placato per breve tempo il suo ego eternamente insoddisfatto, gli lasciavano il vuoto attorno, facendolo piombare di nuovo nella più totale disperazione.

Arrivato all’età di 35 anni, stanco del silenzioso museo che era diventata la sua prigione e dei vuoti simulacri di amore che il denaro poteva pagargli con donne di facili costumi, Renzo aveva preso una decisione che aveva sconvolto e lasciato attoniti i pochi amici che gli erano rimasti. E fu così che una parte dell’uomo che avevamo conosciuto morì per sempre, quando Renzo prese i voti e divenne Padre Peraldi, partendo in missione per il Messico, a Cancun.

Passarono quasi dieci anni, senza che avessimo molte notizie su di lui, se non che aveva svuotato il suo appartamento di Roma donando tutti i suoi cimeli alla Missione di Cancun, dove aveva allestito una piccola biblioteca e un museo accessibile ai poveri del luogo. Conoscendolo, più che un’opera di bene non era stato altro che un atto egoistico per non separarsi dagli oggetti che in qualche modo lo legavano alla sua vita precedente. Quando infine lo raggiunsi, scoprii che aveva portato la copia del Necronomicon con sé, riuscendo a tenerla nascosta agli occhi curiosi e bigotti dei suoi confratelli.

Le frequenti visite alle vicine rovine di Tulum e lo studio di alcuni passi dell’aborrito libro scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred, uniti alla rilettura delle cronache della scoperta del sito da parte dello spagnolo Juan de Grijalva e di alcune leggende locali sopravvissute alla scomparsa della civiltà Maya, lo portarono a trarre le conclusioni che furono motivo scatenante della lettera che portò ad incontrarci di nuovo. Quanto lui era stato appassionato del Medioevo giapponese, tanto io mi ero dedicato nei miei studi dilettanteschi alla conoscenza delle leggende delle civiltà precolombiane, studi che non avevano esitato a oltrepassare quello che la scienza ufficiale ritiene lecito, ma senza la credulità che oramai aveva soggiogato la mente di Renzo. Dal tono fanatico della sua lettera, accompagnata da un biglietto aereo per il Messico, in cui mi accennava ad un’eccezionale scoperta senza peraltro lasciar trasparire nessun altro indizio, capii che il motivo del suo ritorno in scena non era la gioia di rivedermi: aveva semplicemente bisogno del mio aiuto. Nonostante questa consapevolezza, la mia curiosità nel ritrovare un vecchio amico e vedere uno dei luoghi che avevo sempre sognato di visitare mi fece rompere ogni indugio. Due giorni dopo ero già in volo per il Messico e la mattina successiva un vecchio maggiolino Volkswagen adibito a taxi mi portò all’entrata della missione di Cancun ‘Alivio del Sufrimiento’ dove avrei finalmente rivisto Padre Peraldi. [continua…]

Sic Semper Tyrannis – seconda parte

SIC SEMPER TYRANNIS

“Un racconto di Luca Nisi”

  

2

 

Appena rientrò in casa Alessio attraversò il lungo corridoio e si recò velocemente nel salone accarezzò tutti e quattro i gatti ed infine aprì tutte le ante delle finestre, che erano chiuse da tanto, troppo tempo. L’aria frizzante di settembre invase la casa, e il sole che filtrava coraggiosamente dalle nuvole nere illuminò il salone facendolo respirare nuovamente, liberandolo dopo anni dalle tenebre.

Il semplice gesto di aprire le finestre, gli sembrò un altro passo verso la liberazione come se Alessio invitasse la presenza della madre ad abbandonare definitivamente la casa e lasciare che il figlio vivesse la sua vita.

Il grande tavolo di legno del salone era un rifugio di libri, sparsi per tutto il tavolo occupavano la sua intera superficie. C’era un po’ di tutto nella libreria della famiglia di Alessio, diversi manuali di medicina appartenuti a suo padre, classici sui greci e sui latini e tanta letteratura inglese che Antonia aveva accumulato negli anni.  Dopo aver consumato una cena veloce e rifocillato tutti i gatti, Alessio decise di regalarsi un brivido nella sua nuova vita, decise di affondare il ritrovato buon umore con una vecchia bottiglia di grappa che la madre aveva rinchiuso da mesi in una vetrina.

Mentre sorseggiava la grappa, Alessio si ricordò della bottiglia ritrovata alcune ore prima tra gli scogli. Così fece spazio tra i libri sparsi sul tavolo e accese una lampada da scrittoio per avere una visione migliore. La bottiglia era davvero antica forse aveva più di cinquant’anni, chissà quale tragitto aveva percorso fino ad imbattersi nelle correnti che l’avevano trasportata fino a lui.

Osservandola da vicino, grazie alla luce della lampada intravide perfettamente un foglio, il tappo della bottiglia era sigillato con della ceralacca e sembrava che lo scritto all’interno fosse in buone condizioni. Da buon bibliotecario, Alessio prese della carta e trascrisse alcuni dati, catalogando l’oggetto, con Data, Ora e Luogo del ritrovamento.

Era indeciso se aprire o meno la bottiglia, era curioso di conoscere il suo contenuto ma era anche affascinato dall’oggetto in se. Aprirlo avrebbe fatto perdere fascino a quel regalo venuto dal mare, in fondo da esperto di storia inglese sapeva benissimo che nel sedicesimo secolo la sovrana d’Inghilterra, Elisabetta I aveva emesso un decreto che vietava l’apertura di bottiglie che contenevano un messaggio, pena la morte.

Grazie ad internet Alessio aveva scoperto i milleusi dei messaggi nelle bottiglie, utilizzati come lettere d’amore, richieste d’aiuto e soprattutto per tracciare il percorso delle correnti oceaniche. Serpeverde sembrava il più interessato tanto che con le sue zampe cercava di far rotolare la bottiglia lungo il tavolo, Grifondoro e Tassodoro intanto si erano accoccolati sul divano, mentre Corvonero una gatta dal pelo nero scintillante stava facendo uno spuntino. Intanto al di fuori nella piazza del paese la banda dei vigili urbani si esibiva in un piccolo concerto, intonando sia dei classici che dei brani più recenti facendo felici i tanti anziani accorsi nella piazza e gli ultimi turisti rimasti in paese.

Ad un tratto un assolo di tromba fece sobbalzare la colonia felina all’interno della casa, Corvonero schizzò velocemente dietro una tenda, i due gatti che dormivano sul divano si rizzarono giusto un attimo e tornarono a dormire, mentre Serpeverde impaurito dal suono arrivato all’improvviso, sgommò velocemente tra i libri urtando la bottiglia che prese a rotolare dal tavolo. Alessio non poteva fare nulla, soltanto prepararsi all’impatto imminente, invece il tragitto della bottiglia verso il pavimento fu interrotto da un libro coperto da almeno due dita di polvere.

Era stato un libro di poesie di John Keats a salvare la bottiglia dal pavimento, quel salvataggio effettuato da uno dei maestri inglesi del romanticismo, aveva fatto accendere una sorta di lampadina nel cervello di Alessio. Avrebbe potuto regalare o condividere l’apertura della bottiglia con Loredana, la ragazza che lavorava con lui nella biblioteca comunale, sarebbe stato bello aprire la bottiglia e magari trovare all’interno un sonetto d’amore, con Loredana accanto. In quei momenti Alessio si scoprì romantico, in fondo sarebbe stato un buon modo per abbattere la timidezza e cercare di avvicinarsi a Loredana. A quasi quarant’anni non poteva più nascondersi dietro le sue paure, poteva davvero vivere la sua vita in modo differente, senza necessitamente immaginare di varcare l’ingresso per gli imbarchi ed abbandonare definitivamente l’isola.

Imbarchi che già una volta aveva utilizzato per affrontare gli anni di università nella grande città vicina dall’altra parte del mare. Furono anni difficili di isolamento, rapportarsi con la gente era sempre stato un problema per Alessio, il suo carattere schivo lo estraniava totalmente dalla vita al di fuori dell’università.

Aveva soggiornato per quattro anni in una casa con altri studenti, dove era riuscito a relazionarsi con il mondo esterno utilizzando uno strumento che prima non conosceva, internet. In quel periodo era sopravvissuto alla monotonia degli studi e l’isolamento imposto da se stesso, immergendosi nel tempo libero nei giochi di ruolo nella rete. Così la realtà e la fantasia si mescolavano in un mondo ricreato nella sua mente, alcuni ragazzi che Alessio frequentava durante gli anni universitari lo catalogarono come un ragazzo, timido ma con un piccolo dubbio, come se in realtà fosse affetto da autismo.

Invece, Alessio era un ragazzo normale, troppo introverso e legato ad un educazione maniacale che la madre gli aveva imposto. Antonia con la sua eccessiva protezione verso il figlio dal mondo esterno lo aveva rinchiuso in una teca di vetro fatta di libri e amore materno. Partito dall’isola per l’università quel mondo poteva tranquillamente cadere, incrinarsi e liberare il giovane Alessio.

Ma le regole imposte dalla madre al figlio, fecero in modo che Alessio invece di diventare uomo rimase il ragazzo che aveva appena finito la scuola superiore e si era subito iscritto alla facoltà di storia. Ad esempio Alessio non ha mai posseduto un cellulare, non ne aveva mai sentito il bisogno.

Ricordando quei tempi, Alessio si rammaricava di non aver vissuto la città, di aver speso troppo tempo rinchiuso nelle aule universitarie e non aver fatto nulla, seguendo quelle che adesso trovava delle regole ingiuste. Regole e regolamenti che riusciva ad annullare quando costruiva i suoi personaggi nei giochi on line. Tutto questo era fatto all’oscuro della madre, che secondo Alessio non avrebbe capito l’importanza di quello che fondamentalmente era solo un piacevole passatempo.

Più il lutto si stava esaurendo e più un senso di rivalsa stava crescendo dentro Alessio, forse Antonia non si era resa conto che il suo modo di fare stava castrando il figlio, invece la sua improvvisa dipartita lo stava finalmente liberando. Certamente non era facile dal giorno alla notte mutare, nonostante quella giacca nera adesso era solo un pezzo di stoffa perduto in mare, quella insignificante perdita l’aveva aiutato a muovere i primi passi verso un senso di libertà e consapevolezza. [continua…]

Sic Semper Tyrannis – prima parte

SIC SEMPER TYRANNIS

Un racconto di Luca Nisi

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1

 

La zuppa di pesce si stava raffreddando, Alessio pranzava da solo al piccolo ristorantino ai piedi del porticciolo dinanzi il mare. I suoi occhi erano fissi sul botteghino degli imbarchi, mentre il sole di settembre riscaldava l’aria. All’orizzonte alcune nuvole si spartivano quella porzione del cielo, erano nuvole nere ma per ora non sembravano minacciose.

La morte della madre lo aveva scosso profondamente, una dipartita così rapida e dolorosa che lo stava logorando interiormente. Fissava le navi in partenza cercando dentro di se quella voglia di andare via, di lasciare il suo lavoro da archivista e fuggire da quella vita diventata così grigia e monotona.

Terminata la zuppa lasciò che il mezzo di litro di bianco della casa gli riscaldasse l’animo, ma la cosa fu vana, l’unico effetto che gli recò fu un leggero senso di stordimento. Nonostante il sole non scottasse troppo rendendo la temperatura gradevole, Alessio iniziò una lunga passeggiata lungo il molo avvolto in una pesante giacca nera.

Era una domenica di fine settembre e la passeggiata lungo il molo tra le barche attraccate pullulava di gente, genitori che camminavano lasciando che i figli giovassero dei benefici dell’aria di mare, pescatori amatoriali e bagnanti alla ricerca degli ultimi scampoli di un estate ormai al tramonto.

Stonava in quel contesto Alessio, rinchiuso nel silenzio e avvolto in quella giacca nera, come a mostrare al mondo il suo lutto. Eppure Antonia, sua madre era scomparsa da un mese, tra l’altro slegandolo da un rapporto fin troppo morboso. Una malattia fulminante l’aveva portata via in giro di pochi mesi, lasciando Alessio solo nella grande casa materna, togliendogli quell’unica figura cara che gli era rimasta.

Passeggiava verso la fine del molo superando la rete scardinata che segnalava il termine della strada e l’inizio della scogliera, Alessio come faceva sempre fin da quando era un ragazzo attraversò la rete ed incominciò il suo saltellare tra i grandi blocchi incastrati nel mare.

Alessio nella vita faceva l’archivista nella biblioteca comunale e per la maggior parte della sua vita erano stati i libri i suoi più fedeli confidenti, non perché fosse un uomo scorbutico o di brutto aspetto e che il rapporto così profondo ed intenso che aveva avuto con la madre lo aveva reso timido ed introverso. Preferendo la compagnia dei libri e dei suoi quattro gatti a quella degli altri esseri umani.

Così mentre saltellava con grande attenzione su quei blocchi di cemento immaginava di essere in Irlanda del Nord percorrendo il selciato dei giganti alla ricerca di passaggi su altri mondi fantastici. Di tanto il rumore del mare o il garrito dei gabbiani sempre alla ricerca di cibo lo riportavano alla realtà, intanto le nuvole all’orizzonte erano aumentate e adesso minacciavo un temporale.

Alessio si fermò proprio sull’ultimo scoglio e dinanzi al mare aperto si accese una sigaretta, il vento si era alzato improvvisamente e la sigaretta cominciava a consumarsi velocemente, Alessio osservava l’orizzonte mentre la sigaretta bruciava fino a raggiungere il filtro, così senza pensare l’uomo la gettò versò il mare, una folata improvvisa la fece schizzare verso l’alto per poi ricadere tra le rocce.

Alessio la segui con lo sguardo, poi i suoi occhi furono abbagliati da un luccichio proveniente tra le rocce che formavano quel paesaggio di sassi. Si mosse velocemente tra i banchi abituato com’era a frequentare quel luogo, si accucciò lungo una parete di una grande macigno e scivolò delicatamente verso il basso. Un raggio del sole era riuscito a liberarsi dalle nuvole nere ed aveva colpito una vecchia bottiglia di vetro riflettendo impunemente nello sguardo triste di Alessio, facendo credere all’uomo di aver trovato un diamante prezioso, magari l’immaginario “cuore dell’oceano” del film Titanic.

Alessio osservò deluso la bottiglia, sperava di aver scoperto chissà quale tesoro fagocitato dal mare, la guardò alcuni istanti poi quando si rese conto che il vento stava trasportando anche un forte odore di pioggia decise di riprendere la via di casa.

Per caso diede un altro sguardo alla bottiglia, quando osservandola più attentamente si rese conto che al suo interno c’era custodito qualcosa. Allungò il braccio per afferrarla ma la giacca che tristemente indossava gli impediva di distendere perfettamente il braccio. Cosi decise di spogliarsi di quel lutto nero e finalmente libero nei movimenti riuscì ad afferrare la bottiglia, ed appena la prese tra le mani notò compiaciuto che conteneva un foglio al suo interno.

Nello stesso momento in cui Alessio si congratulava con se stesso del ritrovamento, la sua giacca nera volò via nel cielo, fece una giravolta seguendo il turbinio capriccioso del vento, che la fece cadere definitivamente nel mare.

Alessio rimase esterrefatto, non per aver perso la giacca e le sigarette, ma per la sensazione che aveva avuto osservando la scena. Difficile da comprendere come quella raffica del vento avesse ripulito l’animo dell’uomo eppure oltre alla giacca il vento si era portato via il malumore che da giorni stava affossando Alessio. Come se quel vento avesse ripulito il suo animo lasciandolo finalmente libero di respirare nuovamente, fu come una pioggia improvvisa di emozioni, si sentiva bene,  libero e vivo.

Alessio alloggiava in un palazzetto d’epoca sito nel cuore del paese, il vecchio edificio probabilmente affondava le sue radici nel medioevo e all’interno manteneva un mobilio talmente austero da far sembrare che il tempo in quella casa si fosse fermato. Il soffitto a travi custodiva colonie di ragni giganteschi, mentre antiche porte di legno scricchiolanti dividevano lo spazi in camere ricolme di povere e lenzuoli distesi sopra i mobili.

Con la morte della madre Alessio aveva preferito chiudere diverse stanze e lasciare in uso solo un piano della casa. La sala da pranzo era il regno dei gatti e dei libri, era il cuore pulsante della casa, l’unico luogo dell’abitazione dove si poteva scorgere una luce accesa. Serpeverde sonnecchiava sopra il divano, Grifondoro che era il più vecchio tra i gatti di Alessio dormiva sopra una sedia, Tassorosso un bel micio rosso dal pelo lungo cercava di catturare un ragno e vanamente lo aspettava davanti una crepa del muro della sala. Mentre Corvonero l’unica gatta della compagnia si stava stiracchiando vicino alla finestra che si affacciava sopra la piazza principale del paese.

Alessio aveva sempre immaginato la sua casa come la scuola del famoso maghetto, e in suo onore aveva chiamato i suoi gatti con i nomi della case della scuola di Harry Potter. Antonia sua madre, era stato il preside di quella casa, con la sua presenza austera ricordava davvero la figura di un insegnante. Era stata proprio Antonia ad incoraggiare il figlio alla lettura, a perdersi tra le pagine ingiallite dei libri trascurando quella vita più semplice e sbarazzina che i coetanei di Alessio vivevano all’esterno.

Così la vita del giovane era trascorsa tra i libri e gli studi sempre sotto il vigile controllo di Antonia, e adesso che era morta il figlio si era ritrovato solo con i libri, eppure fino a quell’istante di liberazione vissuto sulla scogliera, in quella casa Alessio sentiva ancora la presenza ingombrante della madre. [continua…]

Il canto del Leviatano – decima parte

IL CANTO DEL LEVIATANO

Un racconto di Simone Ceccano

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X

  “Il diario del Maggiore Cavendish

“Come sto per illustrarle Professor Seagull, quel Cavendish ritratto nel quadro in qualche modo è un mio antenato, o meglio è imparentato con la mia famiglia.” Continuò l’avvocato con una smorfia di disprezzo, mentre apriva con delicatezza l’usurato taccuino che asseriva essergli stato donato da Marcelo. “Che sia maledetto, spero davvero stia arrostendo tra indicibili tormenti nelle fiamme dell’Inferno! Se non fosse stato per lui e per la sua sciocca ambizione oggi non sarei certo qui a parlare con lei in questo posto dimenticato da Dio.” L’uomo sudava vistosamente, forse per colpa della droga. “Secondo il diario che ho tra le mani, William era il figlio minore di una famiglia decaduta di proprietari terreri del Devonshire. Non gli spettava niente delle scarse proprietà che il vecchio Lord Cavendish aveva salvato dalla sua vita dissoluta, il testamento era chiaro, il castello di famiglia e pochi terreni di scarso valore sarebbero andati tutti alla madre, che si vocifera fosse una ex prostituta originaria di Londra, e al fratello maggiore, David. Alla morte del padre, per William rimasero poche alternative se non arruolarsi nelle truppe di terra della Compagnia delle Indie Orientali, sperando di trovare così il riscatto e la fortuna che gli era stata negata. L’appartenenza ad una famiglia di antico lignaggio, seppur decaduta, gli permise di imbarcarsi per l’India con il grado di ufficiale. Fu lì che incontrò quello che per anni sarebbe stato il suo più intimo amico e fedele servitore, il sepoy Naagraj che vede ritratto nel dipinto. Nonostante si fosse distinto in molte azioni contro i ribelli, la carriera del giovane William non sembrava decollare. Fu per questo che non si lasciò sfuggire l’occasione di salpare per Socotra, nel 1834, durante la missione ispettiva al seguito del Luogotenente Wellsted, dell’Esercito Indiano. Ma come era già successo durante gli anni passati in India, per il giovane William Cavendish sembrava non esserci nulla che potesse spegnere la sua sfrenata ambizione, che lo consumava giorno dopo giorno, come un fiammifero percosso dal vento. Fu a Socotra che udì dagli indigeni della leggenda di Dejabar, un’isola vicina colma di ricchezze e circondata da un tale alone di mistero e di sacro terrore che aveva impedito agli Arabi e ai Portoghesi di impadronirsi dei suoi segreti. Un’isola che, se non si voleva credere alla veridicità dei racconti di Sindbad, non aveva visto volto umano fin dai tempi di Alessandro Magno. Cavendish decise che quella era la sua Isola del Destino, il luogo che gli avrebbe fatto ottenere il successo e l’affermazione che la sua famiglia gli aveva negato. Tornato in India, era riuscito ad ottenere il grado di Maggiore grazie all’intercessione di suo fratello David che, ereditate le doti amatorie del padre, aveva nel frattempo sposato una ricca nobildonna dell’Essex, con molte amicizie sia a Corte che ai vertici della Compagnia. Poco meno di un anno dopo il suo rientro a Bombay, William fece ritorno a Socotra con una nave, che per ironia della sorte si chiamava Sea Monkey, una compagnia di fucilieri tutta sua e un gran numero di indiani minatori. Naturalmente il fedele Naagraj era con lui. Spese i primi sei mesi a costruire il porticciolo e la torre che ha visto stamane e il fortino in cui siamo adesso. Al tempo stesso si dedicò ad esplorare l’isola in lungo e in largo. Nonostante la grande abbondanza di Alberi del Drago, sperava di trovare le ricchezze minerarie favoleggiate dagli indigeni di Socotra che gli avrebbero permesso di ritornare ricco in Inghilterra, in modo tale da poter umiliare il fratello che pure gli aveva prestato il denaro per mettere in piedi la spedizione. Inutile dirle, Professor Seagull, che pur scavando e cercando in ogni anfratto di Dejabar, il Maggiore Cavendish non trovò mai quello che cercava, ma molto di più. La scoperta del tempio ai margini della giungla settentrionale, costruito proprio a ridosso del colossale vulcano spento, fu per William un vero e proprio shock che cambiò totalmente le sue prospettive. Il tempio era una perfetta sintesi di stile ellenistico ed egizio, molto simile al complesso di Edfu costruito dai Tolomei, che l’egittologo francese Mariette avrebbe scoperto una trentina d’anni più tardi. Le  numerose iscrizioni in greco che accompagnavano i geroglifici che decoravano le pareti interne e le enormi colonne non lasciavano spazio a dubbi: Alessandro il Grande era davvero stato lì. Ricchezza, fortuna e fama imperitura sembravano finalmente alla sua portata… Si immaginava ricevuto a Corte e invitato a raccontare della sua incredibile scoperta in tutti i circoli più esclusivi di Londra… Maledetto idiota!” gridò Jason Pickett, battendo forte il pugno sulla vecchia scrivania che parve quasi schiantarsi sotto la pressione, mentre brandiva nell’altra mano il diario dalle pagine ingiallite che aveva fino a quel momento sfogliato di tanto in tanto mentre proseguiva nel racconto. La sua espressione di cinico disprezzo era ora mutata visibilmente tanto da spaventarmi e tenermi muto inchiodato alla sedia, mentre fissavo gli occhi dell’avvocato brillare di una luce che rasentava la follia. “Trovò una porta, si! Una colossale lastra di pietra color smeraldo nel sancta sanctorum del tempio. Conduceva attraverso interminabili cunicoli nelle viscere stesse del vulcano. Dapprima non ci fu modo di rimuoverla, neanche con la forza di trenta uomini. Ma quando il mio incauto avo tolse ciò che era incastonato al centro di essa, ignorando totalmente gli avvertimenti scritti in geroglifico, bastò appena la mano di un solo uomo per farla scivolare su antichi cardini e spalancare gli abissi che hanno maledetto la sua esistenza, la mia e quella di decine, che dico, centinaia di altre persone!” L’avvocato sembrò calmarsi per un istante, fece un respiro lungo ed estrasse di nuovo quello che portava appeso al collo, l’orrendo crocifisso che aveva scacciato le scimmie e ci aveva salvato la vita. “Questo Professor Seagull era incassato in una nicchia nel bel mezzo della lastra di pietra, il sigillo a guardia della porta. Le iscrizioni ammonivano che non doveva essere rimosso, ma ormai era troppo tardi… L’anima di William Cavendish era dannata per l’eternità…” Non sapevo cosa fare, mentre l’uomo di fronte a me ansimava, eccitato dal suo stesso racconto. Miglia e miglia di oceano mi separavano da casa, ero solo su un’isola infestata da scimmie cannibali e assassine, in balia di mercenari arabi armati fino ai denti e di una persona evidentemente disturbata e con problemi di tossicodipendenza, che per giunta i giornali che avevo letto mi avevano dipinto come un probabile serial killer. Il fatto che fossi vivo grazie a lui in quegli attimi non mi sfiorava nemmeno. Poteva aver ucciso il mio amico e il resto degli esperti della spedizione… E per giunta Mustapha era lontano ormai, in rotta verso Socotra che adesso mi appariva quasi come un paradiso proibito. Fu in quel momento che la porta dietro di noi si spalancò, rivelando un uomo azzimato dai capelli increspati di fili d’argento, che poi si rivelò essere il geologo italiano Leandri, che conduceva su una sedia a rotelle una persona all’incirca della mia età, dalla leggera barba incolta, i lunghi capelli neri che si posavano sulle spalle e un viso familiare e rassicurante dal largo sorriso. Mi dimenticai in un istante dell’avvocato e del suo strano racconto, scattai in piedi con le lacrime agli occhi e corsi per abbracciarlo. “Marcelo!” gridai. . E per la prima volta nelle ultime settimane mi parve quasi che la mia anima fosse divenuta più leggera. [continua…]

Oggetto: 21 dicembre – seconda e ultima parte

OGGETTO: 21 DICEMBRE

Un racconto di Luca Nisi

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Il documento correlato è una relazione approfondita sul manufatto, ritrovato da una spedizione tedesca in Medio Oriente. Ti faccio un piccolo riassunto: i nazisti ne sono venuti in possesso in seguito ad una spedizione del 1938 nell’odierno Iraq. La missione era stata affidata ad una costola delle SS, incaricata della ricerca di tutti quei reperti che potevano avere una valenza esoterica e recitare un’influenza magica e positiva per il Reich. La singolarità della scultura che più ha attirato i nazisti non è stato tanto il soggetto, ma il materiale di cui è fatta e la sua storia, che il venditore ha raccontato all’antropologo R. Klenze, capo della spedizione. La pietra utilizzata per fabbricarla è vecchia di mille anni e proveniva dal frammento di un meteorite che era stato raccolto molti secoli prima. Si stabiliva che il meteorite si fosse schiantato all’incirca al confine tra la Mongolia e la Siberia; in seguito parti di questo meteorite furono recuperati da avventurieri e cercatori d’oro e venduti per tutto il continente asiatico. Il venditore raccontò ai nazisti che, dopo alcuni secoli, uno dei frammenti giunse tra le mani di un ricco signore della città di Aleppo, che ordinò ad un’artista di farne una scultura che raffigurasse una delle antiche divinità locali, proibite dopo l’avvento dell’Islam.

Lo scultore, che mai aveva lavorato quel materiale, impiegò soli sette giorni a terminare il suo lavoro, una cosa incredibile, considerato il peso e la consistenza di quella pietra. Qui finisce il resoconto e comincia la leggenda legata alla statuetta. Il venditore raccontò a Klenze che l’artista non smise mai di lavorare, scolpì senza sosta giorno e notte fin quando non completò la statua; poi l’uomo fu colpito da una sorta di paralisi e dopo poche ore morì, senza dire neanche una parola. Il signore che aveva ordinato la scultura rimase allibito quando gli fu consegnata. L’artista, invece di scolpire la divinità commisionatagli, aveva creato da quella pietra una specie di lombrico. Proprio così, un grosso verme lungo ben trenta centimetri. Il venditore disse che le cronache del tempo citavano a riguardo:  “sembrava che lo scultore avesse liberato quel verme dalla sua prigione di pietra.” Alla vista di simile orrore, il signore andò su tutte le furie e decise di sbarazzarsi di quella scultura, così quella statuetta cambiò proprietario per diversi secoli, fino a giungere al mercante iracheno che l’ha venduta ai tedeschi.

Il resoconto stilato da R. Klenze, al tempo famoso antropologo di Berlino, forniva però altre informazioni che erano sfuggite all’iracheno. Sotto la base della scultura, infatti, erano incise una serie di informazioni astronomiche. Non pensare a mappe stellari di pianeti sconosciuti o coordinate per raggiungere fantomatici alieni, vi erano riportate le fasi degli allineamenti dei pianeti, praticamente vi erano  scolpite delle congiunzioni astrali. 

Caro Luca, ti sto scrivendo sapendo di poter confidare nella tua riservatezza. Soprattutto, essendo tu un amante della fantascienza, puoi giudicare con mente aperta quello che ti sto per confessare. Sono certo, amico mio, che almeno tu non mi etichetterai come un folle.

Lo scorso agosto mi trovavo da solo nella mia casa di Praga,  forse erano le nove di una serata calda e senza nuvole in cielo. Avevo appena finito di cenare, in tempo per accendere la televisione. Mentre cercavo un canale musicale, mi imbattei in un telegiornale che annunciava che quella sera si sarebbero allineate le Pleiadi, il Sole e la Terra. A quelle parole, d’istinto mi voltai verso il piedistallo dove avevo posizionato la statua del verme. Ecco, amico mio, devi sapere che la statua peserà almeno 10 chili e ti posso assicurare, anzi giurare, che essa aveva ruotato di almeno 45 gradi in direzione della finestra. Rimasi sbalordito, anche perché io non l’avevo mai toccata. Per giunta, casa mia non è di solito molto frequentata, quindi non riuscivo a spiegarmi come si fosse mossa. Mentre mi avvicinavo per osservarla da vicino, dalla finestra sentii diverse grida di meraviglia.

Abito su una grande via, molto vicino al centro, e dalla mia finestra si scorge il fiume Moldava. Mi affacciai per vedere cosa potesse essere accaduto, quando guardai la strada sotto la mia finestra vidi diverse persone che indicavano il cielo: c’era una sorta di scia luminosa che squarciava l’orizzonte, proprio perpendicolarmente alla mia finestra, perfettamente allineata con la statua.

Ti confesso che rimasi quasi allibito di fronte a quello spettacolo. Lo strano effetto nel cielo, così incredibile e meraviglioso, durò alcune decine di minuti; poi, col calare delle tenebre sulla città, tutto tornò alla normalità e la scia si dissolse nel cielo notturno. Quello fu soltanto l’inizio, perché il giorno successivo, alla luce del sole, mi accorsi di un altro inquietante particolare. Il colore della statua stava lentamente cambiando, come se la pietra si trasformasse o mutasse in qualcos’altro. Certo, è pur sempre un materiale che viene dallo spazio e magari possiede delle proprietà a me sconosciute, ma non potevo saperlo, non riuscivo a spiegarmi. Pensai fosse l’effetto dell’allineamento e che l’incisioni sotto la base fossero le tappe di un percorso.

Dopo quell’episodio sono arrivati gli incubi, la notte faccio degli strani sogni. Visioni di luoghi sconosciuti, di spazi sconfinati e freddi, cieli colmi di stelle sconosciute. Innumerevoli soli, uno dietro l’altro, e mondi con lune ed anelli mai scoperti. Inoltre sogno di visitare strane città sommerse negli abissi marini, piene di strani esseri simili agli umani con una pelle color argento, e anche altre cose che non riesco neanche a raccontare. Su tutto incombe sempre la sensazione di un pericolo imminente, la percezione di una forza sconosciuta e potente che mi attrae, come se desiderasse unirsi a me. In queste ultime settimane sento un grande disagio interiore, proprio quello che ti avevo confessato nelle prime righe di questa mia mail. Ho riflettuto sul fatto che, se anche gli stessi   nazisti che avevano trovato questa statua hanno preferito seppellirla sotto terra, forse avevano intuito che in essa si annida qualcosa di pericoloso.  Mi chiedo, nei miei momenti di lucidità, se averla dissotterrata sia stato un terribile errore. Forse dovrei  sbarazzarmene, ma una parte di me non ci riesce, non vuole. In certi istanti mi sento fortemente attratto da quel verme che pian piano cambia colore e ammicca alle stelle nel cielo, e quei momenti aumentano sempre di più! Ogni giorno che passa mi sento sempre più vicino mentalmente con la statua, come se quel verme di roccia spaziale comunicasse in qualche modo con me.

Presto arriverà il 21 dicembre e ci sarà il massimo degli allineamenti dei pianeti. Non so cosa aspettarmi, anzi, in realtà credo proprio di sapere cosa succederà. Ieri notte ho fatto un altro sogno, è stato incredibile, dopo certe visioni nella testa si potrebbe insinuare il pensiero del suicidio, ma io no, nonostante mi sia svegliato tra le urla e madido di sudore.

Ora ho finalmente capito quanto sia nobile il compito che mi attende. Quando venerdì 21 dicembre i pianeti si allineeranno, LUI tornerà in vita ed io gli offrirò il mio corpo e lo ospiterò dentro di me. Insieme viaggeremo verso le grandi città sommerse nell’oceano, dove la sua gente vive da eoni, da quando il loro pianeta natale fu divorato dal grande dio Tnargh-guh, colui che tutto ode in fondo al pozzo della piramide e il cui sussurro di notte si confonde con il vento del deserto, facendo impazzire gli incauti viandanti. In cambio vivrò in eterno tra la sua gente, lontano dal pericolo imminente che il grande Tnargh-guh si risvegli e divori l’intera umanità, fagocitandola in un sol boccone. Luca, ti ho scritto perché sono sicuro che tu mi crederai e come me cercherai un modo per salvarti dall’Inferno che presto si sprigionerà. I fogli recuperati dalla tomba di Heimann li ho bruciati proprio ieri notte, non appena mi sono svegliato dal mio sogno. Ti invio queste righe come ultima traccia della mia vita sulla terraferma e come monito per  l’intera umanità. Non mi rispondere e non mi cercare, perché appena ti avrò inviato questo messaggio farò in modo di cancellare tutte le mie tracce. Sarà facile per me, come sai per lavoro mi occupo di software.

Caro Luca, adesso vivrò con gioia e trepidazione il trascorrere del tempo, fino al  21 dicembre 2012, l’alba di una nuova era.

Addio per sempre

SC

Il canto del Leviatano – nona parte

IL CANTO DEL LEVIATANO

Un racconto di Simone Ceccano

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IX

Il volto nel dipinto.

La jeep entrò nel fortino in cima alla collina erbosa, sobbalzando sul sentiero sterrato che l’attraversava. Le bianche mura di fronte a noi splendevano al sole come se non fosse passato neppure un giorno da quando erano state costruite. Attraversato il grande portone di legno, sormontato da una torretta con una croce ed una vecchia campana ormai avvezza al silenzio da più di un secolo e mezzo, lo scenario era ben diverso. Il caos regnava, niente nel cortile dove erano parcheggiati un’altra jeep e un grosso furgone blindato aveva a che fare con l’apparente ordine esterno. Come poi ebbi modo di constatare, nell’interno degli edifici era lo stesso, se non peggio. Gli uomini di Marcelo avevano fatto del loro meglio per rimuovere la mobilia fatta a pezzi, gli escrementi, i detriti e la lordura che imperversavano ogni dove. Sembrava come se l’intero edificio fosse reduce da un saccheggio da parte di barbari in preda ad una cieca volontà di profanare e fare a pezzi ogni cosa. Una decina di yemeniti armati salutarono i compagni ancora scossi scesi dalla jeep e iniziarono a confabulare nel loro idioma a me incomprensibile. Parlavano probabilmente della sorte degli altri che non erano tornati indietro. Cercai per qualche istante di focalizzare dove fossi capitato e in quale situazione si era cacciato Marcelo, ma gli eventi che si erano susseguiti da quando avevo lasciato l’imbarcazione di Mustapha mi rendevano incapace di dare forma alle troppe domande che mi ronzavano nella testa. L’uomo che mi aveva tratto in salvo disse un paio di parole nella loro lingua agli arabi confabulanti, che si zittirono all’istante. Poi fece cenno di seguirlo in una piccola costruzione merlata a due piani, intonacata di bianco, senza vetri alle finestre, pietosamente coperte da persiane cadenti. La struttura sembrava essere una delle più provate dalla furia dei fantomatici assalitori. Di fronte a tutta questa rovina non mi fu difficile pensare alla mano delle scimmie bianche. Quando gli inglesi avevano abbandonato l’isola dovevano essersi accontentate di fare a pezzi il fortino con tutta la loro violenza bestiale, in mancanza dei superstiti che erano riusciti ad abbandonare Dejabar. Attraversammo un androne in cui erano stipate telecamere di ogni tipo, che Marcelo e il suo staff dovevano aver portato sull’isola, insieme a molti computer ed apparecchi di cui ignoravo la funzione. Notai in un angolo parecchie casse di esplosivo, poi salimmo al piano superiore per mezzo di una vecchia scala scricchiolante che conduceva a quello che era stato l’ufficio del comandante della guarnigione. La mia guida mi fece cenno di sedere su una vecchia sedia di vimini di fronte ad una scrivania spoglia in stile coloniale, dietro la quale, nel mezzo del muro dall’intonaco cadente, troneggiava un grosso dipinto sbiadito a cui all’inizio non feci caso.
Poi Jason Pickett si chinò su di un vecchio comò consunto appoggiato alla parete opposta, che le scimmie avevano reso quasi simile ad una bizzarra scultura, nel tentativo di farlo a pezzi con gli artigli. Sul piano vi era una pregiata scacchiera di marmo e onice, senza pedine. Jason tirò fuori un sacchetto di plastica da un piccolo scrigno in legno di cocco. Quindi versò un po’ del contenuto sulla scacchiera e ne trasse una corposa striscia di polvere bianca. Aspirò avidamente con una cannuccia cavata fuori dalla sahariana, quindi sospirò, rimanendo di spalle. Non sapevo cosa dire, ma il mio compagno ruppe il silenzio. “Che effetto fa aver salva la vita grazie ad uomo schiavo della cocaina? E non è la mia unica maledizione Professor Seagull…” “Penso che dopo aver visto quelle scimmie questo sia l’ultimo dei nostri problemi. Ripeto, non so come ringraziarla, ma… Mi perdoni. Dov’è lui?” L’uomo si voltò, fissandomi con noncuranza. “Arriverà tra poco, è stanco, non sta bene. Ho detto agli uomini di avvertirlo che lei è giunto al forte sano e salvo.” Ero snervato, non ne potevo più e decisi di farla finita con quella farsa,. “Senta… So chi è lei, l’ho riconosciuta. Conosco la sua storia e l’ho vista nelle foto sui giornali. L’omicidio della sua ragazza, del suo migliore amico e poi tutti gli altri a suo carico. Mi dica perché dovrei fidarmi.” L’uomo tirò su col naso con un sorriso amaro e beffardo al tempo stesso. “Perché non ha altra scelta, perché le ho salvato la vita… Scelga lei.” Annuii col capo e lo lasciai continuare. “Credo che Mustapha le abbia detto di non lasciare il gommone e di non mettere piede sul molo, queste erano le istruzioni. La prossima volta veda di seguirle, ne varrà della sua vita.” Annuii nuovamente e deglutii, ma continuai a fissarlo con determinazione. “Ci siamo intesi, ma voglio delle spiegazioni. Ora.” L’uomo non si scompose, venne verso di me e si sedette sulla vecchia poltrona semidistrutta che stava all’altro capo della scrivania, proprio sotto il quadro. “Ha dato un’occhiata al ritratto alle mie spalle?” Disse senza voltarsi. Per la prima volta da quando ero entrato nella stanza diedi un’occhiata al dipinto. Nonostante i colori fossero sbiaditi a causa del tempo, le scimmie misteriosamente non lo avevano toccato. Ritraeva un ufficiale dell’esercito britannico, nella sua rossa divisa vittoriana, accompagnato da un attendente, forse un sepoy indiano. Al tempo del ritratto il soggetto aveva al massimo quarant’anni. Il quadro doveva essere stato dipinto sull’isola, sullo sfondo c’era una rappresentazione della sua vegetazione lussureggiante e in lontananza si scorgeva persino il profilo del vulcano spento. Il mio sguardo poi si focalizzò sui lineamenti del volto e sussultai. Barba e capigliatura erano differenti, ma la persona immortalata nel quadro aveva inequivocabilmente una straordinaria somiglianza con quella che sedeva di fronte a me. “Chi è quell’uomo?” chiesi. “Il Maggiore William Cavendish, ufficiale dell’esercito di Sua Maestà Britannica. Come le dirò se vorrà ascoltarmi, in qualche modo il mio destino è legato al suo. La somiglianza è casuale ma inquietante, come capirà tra poco.” Nel dire questo Pickett tirò fuori dalla nera sahariana un vecchio taccuino dalla copertina di pelle e le pagine ingiallite. “Questo è il suo diario, gentile dono del suo amico Marcelo Odissei. Grazie a lui la mia vita e il mio triste destino hanno avuto una spiegazione, e forse una speranza. Le racconterò tutto mentre attendiamo che il Professore ci raggiunga, vuole? In fondo vorrà sapere qualcosa di più sulle scimmie che ci hanno attaccato. “Sembra che non abbia altra scelta.” Risposi, celando la mia curiosità. “Se Marcelo sta arrivando, continui pure.” [continua…]

(pubblicato originariamente su LEGGENDE DALLA CRIPTA DI CTHULHU parte LV del 3 gennaio 2011)

Oggetto: 21 dicembre – prima parte

OGGETTO: 21 DICEMBRE

Un racconto di Luca Nisi

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Amico mio, ti scrivo questa mail in uno stato d’inquietudine che da mesi pervade il mio animo. Come sai sono diversi anni che mi sono trasferito a Praga, una città meravigliosa che ti consiglio di visitare. In questi anni, per il mio lavoro di rappresentanza, ho girato gran parte dell’Europa dell’Est, spingendomi molte volte anche in Russia. Proprio grazie a questi continui spostamenti sono riuscito ad allacciare contatti con esponenti della cosiddetta Mafia Russa. Non credere che io sia coinvolto in chissà quali loschi giri, lasciami spiegare, ho davvero necessità di “parlare” ad un amico.

Se ti ricordi bene, fin da ragazzo ho sempre avuto la passione per la seconda guerra mondiale; soprattutto sono un collezionista di cimeli della Germania Nazista. Fatta questa piccola premessa, devo confessarti che in queste terre la Mafia Russa ha in mano un’ industria multimilionaria di reperti nazisti. In pratica saccheggiano le tombe dei soldati e scavano senza permesso nei luoghi che sono stati teatro dei campi di battaglia della seconda guerra mondiale. Tramite un certo Vasily, un omone calvo, conosciuto per caso in un hotel a Mosca, ho scoperto questo giro e sono riuscito ad entrarvi.

Così, durante i miei viaggi verso Mosca, ho acquistato diversi reperti, pezzi davvero affascinanti per un appassionato come me. Ti confesso che ho comprato di tutto, da alcune mostrine identificative dei reparti delle SS, a piccoli effetti personali (cartoline, orologi, etc etc…) e addirittura anche un pezzo di un carro armato! La compravendita di questi oggetti è una cosa normale in Russia, anzi ti devo confessare che le autorità locali non fanno nulla per fermare questo commercio. Ho la netta sensazione che ai Russi dei Tedeschi non importi nulla, insomma, non hanno alcun rispetto per i loro morti.

Alcuni mesi fa fui contattattato da questo Vasily, che mi informava di essere in possesso di un oggetto davvero interessante, appartenuto addirittura al colonnello delle SS Ludwig Heimann! Per un esperto come me, arrivare ad avere qualcosa appartenuto ad Heimann mi sembrava un sogno. Così non feci altro che prendere un appuntamento con Vasily. Quella volta ci trovammo a Brest, una cittadina della Bielorussia al confine con la Polonia, in un piccolo albergo fuori la città. Quando ci incontrammo, Vasily sembrava molto agitato; diversamente dalle volte precedenti sembrava desideroso di chiudere l’affare il più velocemente possibile. Preciso questa cosa, perché negli appuntamenti trascorsi fare affari con lui era sempre stato abbastanza complicato, non mi faceva mai uno sconto e si andava avanti con uno snervante tira e molla. Tornando al reperto, Vasily mi disse che avevano trovato una tomba, sulla quale c’era inciso in lettere gotiche: L. Heimann. Il sepolcro era nei pressi di Novgorod in Russia, la cosa singolare è che al posto delle ossa del famigerato colonnello i tombaroli rinvennero solo un pacco e un plico contenente dei documenti. Nel pacco c’era una scultura, che dopo ti descriverò; i fogli invece erano delle lettere di accompagno,  una sorta di relazione molto dettagliata della scultura, indirizzata proprio a Ludwig Heimann.

Come sai, amico mio, leggo e parlo il tedesco molto bene e Vasily contava proprio su questa mia dote per vendermi, oltre alla statua, anche la documentazione. Ad essere onesto gettai solo uno sguardo sbrigativo sulla scultura, perché ero molto più interessato ai documenti: se avessero avuto la firma di Heimann, avrei davvero vinto alla lotteria. Vasily, come ti avevo accennato prima, era molto nervoso e si rifiutò categoricamente di vendermi solo i fogli, se li volevo avrei dovuto prendere anche la scultura. Erano otto fogli battuti a macchina e su di essi erano apportate diverse annotazioni a penna. Dalle date che citava Vasily, erano documenti del 1939, quindi in pieno regime nazista. L’atteggiamento del russo mi stava urtando perché non voleva mostrarmi tutti i documenti, premeva per chiudere l’affare velocemente. Così dovetti decidere in quattro e quattr’otto. Come ho sempre fatto nella mia vita, ho seguito l’istinto e ho acquistato il tutto per 5000 euro, in contanti. Credimi, è stata davvero una mossa azzardata, non tanto per la spesa, ma per l’angoscia che provo ogni volta che guardo la scultura. [continua…]