L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – seconda e ultima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

 

 

Il tempo non aveva cambiato di molto Renzo, la tonaca nera che indossava con la sciatta eleganza che lo aveva sempre contraddistinto gli conferiva un’aura forse più austera, ma nel complesso familiare. Mi accolse con il consueto abbraccio vigoroso e manesco e per un attimo mi sembrò di essere tornato indietro di vent’anni, finché non intravidi uno strano fuoco ardere nei suoi occhi, che istintivamente mi fece rabbrividire. Gli eventi che seguirono furono convulsi e cercherò di riassumerli nel modo più breve possibile, in modo tale che i miei sentimenti non mi impediscano di mantenere la lucidità necessaria.

Nella lettera che mi aveva scritto, Padre Peraldi non aveva esitato ad accostare il nome dell’unica città Maya ancora abitata scoperta da Juan De Grijalva, Tulum, con l’aborrito nome di Cthulhu, il dio dormiente nella sommersa città di R’lyeh di cui parla il Necronomicon. Secondo Renzo, l’ultima città Maya portava proprio il nome del dio, seppur travisato dalla lingua indigena. In un passo del Necronomicon si asseriva che in alcune culture, nei tempi antichi, un determinato giorno di un determinato anno, che ricorreva dopo un certo ciclo di decadi in cui il pianeta Venere è particolarmente visibile dalla Terra, e all’osservatore attento sembra risplendere di un colore inconsueto, donne e uomini consacrati dai sacerdoti venivano legati ad uno scoglio percosso dai flutti del mare, secondo un preciso rituale. La recita di formule stabilite, unita al canto di particolari uccelli sacri, attraversava la distesa dell’Oceano fino all’orizzonte, penetrando le profondità marine e destando il dio dormiente, che rispondeva al richiamo per poi emergere dalle acque econsumare il suo orrendo sacrificio. In cambio delle vite a Lui offerte, la città riceveva ricchezza e prosperità. Il perpetrarsi di questa barbara tradizione, secondo Renzo, aveva salvato Tulum dalla decadenza e dall’abbandono che invece aveva colpito le altre città dei Maya.

Dopo i frettolosi saluti, fui letteralmente strattonato nel suo studio all’interno della missione. Con mia somma sorpresa, nella stanzetta con un’unica finestra a cui si accedeva soltanto dalla biblioteca fummo accolti da uno strano suono che non avevo mai sentito prima di allora. L’autore di quel verso bizzarro non era altri che l’uccello dalle verdi piume che si agitava impaziente all’interno di una grossa gabbia che Padre Peraldi aveva appeso al soffitto dello studio.

 

“Che diavolo significa tutto questo?” protestai di fronte a quello che era palesemente una rara specie di tucano di grosse dimensioni, con una livrea inconsueta che non avevo mai visto prima.

 

“Non è meraviglioso?” esclamò il mio amico con tono stentoreo mentre l’uccello, innervosito dalla nostra presenza, continuava a ripetere il suo verso all’infinito.

 

Si trattava di una rarissima specie di tucano originaria soltanto di quella parte dello Yucatan. Stephens e Catherwood ancora accennavano di aver visto alcuni di questi volatili aggirarsi per le rovine di Tulum ai tempi del loro viaggio, ma dai primi del ‘900 era certo che questa specie dal colore così particolare si fosse ormai estinta del tutto. Padre Peraldi mi raccontò come avesse miracolosamente trovato quell’unico esemplare nel tronco cavo di un albero non lontano dal complesso delle rovine. Di per sé sarebbe già stata un’incredibile scoperta, ma ovviamente non era tutto.

Un mese prima, un amico sacerdote aveva spedito a Renzo un manoscritto da Cuba, che prontamente mi fu mostrato per dare soddisfazione alla mia curiosità. Era una testimonianza inedita, a quanto pare redatta di proprio pugno nientemeno che da Juan de Grijalva, di cui non si era mai venuti a conoscenza prima e che era stata rinvenuta nelle rovine di un monastero, al sicuro all’interno di uno scrigno di metallo. Leggendo lo spagnolo antico in cui era redatta la pergamena a fatica, nonostante avessi qualche dimestichezza con l’idioma, non potei in alcun modo nascondere il mio stupore.

Grijalva, durante la sua breve visita, raccontava di aver assistito ad una misteriosa cerimonia, celebrata dagli indigeni in una notte particolare, durante la quale la stella di Venere risplendeva nel cielo con una luce e un colore che gli Spagnoli non avevano mai visto prima. Due vergini e due giovinetti, benedetti dai sacerdoti nel Tempio del Dio Discendente, erano stati poi legati ad uno scoglio in riva al mare. Tutti gli abitanti di Tulum si erano poi radunati sulla spiaggia, vestiti a festa ed ornati di piume verdi e monili di ogni genere. Al capitano e a due dei suoi ufficiali era stato permesso di assistere alla cerimonia, mentre gli altri marinai sarebbero dovuti rimanere sulla nave ormeggiata poco lontano. Assicuratisi che tutti gli Spagnoli tranne i tre a cui era stato consentito di rimanere fossero tornati a bordo, i sacerdoti avevano portato gabbie al cui interno si agitavano decine di uccelli dal grosso becco allungato e dalla livrea del colore dello smeraldo.

Sotto gli occhi attoniti degli Spagnoli, gli officianti avevano infine iniziato ad intonare una litania in una lingua sconosciuta, che a Grijalva e i suoi era parsa completamente differente da quella con cui avevano cercato di comunicare con loro. Quasi all’unisono gli uccelli avevano allora iniziato ad emettere il loro caratteristico verso profondo, alto e monotono, che aveva solcato le onde lontano, fino all’orizzonte. Il suono fu udito persino dai marinai rimasti confinati sulla nave. Poi erano passati istanti interminabili, mentre il timbro monotono degli uccelli si era fuso con l’incessante lamento dei sacerdoti in una cacofonia infernale. Grijalva e i suoi avevano tremato mentre la vista e i sensi pian piano iniziavano a confondersi.

Infine, a largo, i flutti avevano cominciato a muoversi improvvisamente, formando un gorgo di proporzioni immani. Anche i marinai sulla nave lo videro ed iniziarono a gridare in preda al terrore mentre una figura indistinta e colossale, che sembrava avere molti tentacoli ed immani ali, iniziava ad emergere grondante dalle acque per avvicinarsi alla riva, verso lo scoglio dove erano state legate le quattro vittime. A quella vista, Grijalva e i due ufficiali risalirono velocemente sulla scialuppa, tornarono a bordo della nave e lasciarono più velocemente che potevano Tulum e gli empi riti dei suoi abitanti. Gli indigeni, come in trance, rimasero a contemplare la mostruosa figura che si avvicinava a grandi passi verso di loro e non tentarono neppure di fermarli.

Tornato a Cuba, per paura di essere preso per pazzo, dopo aver pagato profumatamente i marinai per il loro silenzio, Juan De Grijalva aveva nascosto al sicuro in un monastero la testimonianza  di quella notte, vergata di suo pugno proprio sulla pergamena che in quel momento stavo tenendo tra le mani. Il prezioso documento avrebbe potuto con tutta probabilità rimanere nascosto in quel rifugio sicuro per sempre; invece il destino aveva voluto che il fortuito ritrovamento di un sacerdote curioso e dall’animo semplice lo facesse finire in possesso di Renzo Peraldi, l’uomo che in quel momento mi guardava di nuovo con lo sguardo esaltato che già mi aveva colmato di inquietudine. La luce delle lampade dello studio si rifletteva grottescamente sulla testa calva del mio ospite, mentre l’uccello in gabbia aveva ricominciato ad emettere il suo verso stridulo.

 

“Capisci ora perché ti ho fatto venire fin qui?” esclamò a voce alta.

 

“A questo hanno portato i miei studi degli ultimi dieci anni e poche settimane fa la scoperta di quel volatile creduto estinto ha quadrato il cerchio. Non può esserti sfuggita l’analogia tra questo racconto e quanto ti ho scritto di aver letto nel Necronomicon. Hai capito a quale entità che nemmeno oso pronunciare in questo luogo di Dio sacrificavano i sacerdoti di Tulum fino a 400 anni fa in cambio di ricchezza e prosperità, prima che gli Spagnoli spazzassero via tutto! Il Tempio del Dio Discendente, così lo abbiamo chiamato! Sciocchezze! Il dio non si tuffava dalle acque ma sorgeva da esse!”

 

Cercai per cortesia di non far trasparire l’ansia e il disgusto che il suo tono stentoreo e folle mi suscitavano in quel momento. Non potendo credere che fosse uno degli scherzi di cattivo gusto che amava fare in gioventù, né che fosse giunto a tanto, persino a farmi venire in Messico, per il solo piacere di prendersi gioco di me, non mi restava che ammettere che Padre Peraldi aveva perso completamente il senno. Dovevo prendere tempo assecondandolo.

 

“Sono felice di rivederti.” Risposi senza troppa convinzione.

 

“E sono ancora più felice del fatto che hai deciso di rendermi partecipe di una così incredibile scoperta, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirmi… Qual è il vero motivo per cui mi hai fatto venire fin qui? E in che modo potrei esserti d’aiuto?”

 

La risposta Renzo me la diede solo qualche ora dopo, mentre passeggiavamo per le rovine che aveva insistito a farmi visitare. Fu quello l’elemento definitivo che mi fece voltare per sempre le spalle al mio vecchio amico e tornare frettolosamente in Italia il giorno stesso.

Avrete capito anche voi, Renzo aveva intenzione di replicare il rituale e aveva bisogno di un complice un minimo qualificato perché tutto andasse per il verso giusto. Aveva scoperto che la notte seguente, come ogni 30 anni, Venere sarebbe stata in quella posizione particolare descritta nel Necronomicon e nella lettera di Grijalva. Naturalmente nei suoi piani sarei stato io ad aiutarlo ad officiare il rito, in qualità di lettore delle empie formule che i miei studi sugli antichi linguaggi mi avrebbero permesso di pronunciare con la corretta fonetica, mentre lui nel frattempo avrebbe costretto l’uccello ad emettere il particolare richiamo per Colui che dimora negli abissi. Perché il cerchio si chiudesse senza arrecare nessun danno agli officianti, mancava solo la vittima designata, che Renzo mi confessò aver scelto nella sua perpetua, tale Valeria, una prostituta che anni prima aveva salvato dalla strada e che gli era particolarmente fedele. Il suo piano era di drogarla, poi l’avremmo trasportata in barca  fino alle rovine, verso un atroce destino.

Nessuno potrà biasimarmi di non aver corso il rischio di diventare corresponsabile di un simile orrendo delitto, ordito solo per appagare l’ego insoddisfatto da decenni di Renzo Peraldi.

Non ebbi più notizie di lui per anni, finché non diventammo entrambi vecchi e finché non ricevetti la sua seconda e ultima lettera, quella che mi ha fatto tornare qui per rendere l’estremo saluto alla sua bara vuota. Renzo dovette aspettare altri trent’anni per mettere in atto i suoi propositi. Ma stavolta, stanco della vita, scriveva di essere determinato a sacrificare se stesso e nessun altro pur di avere il privilegio di assistere agli effetti di quell’antico rituale, giocando in tal modo il suo ultimo scherzo al destino.

Le conclusioni della lettera e il sentimento di lealtà che non mi ha mai abbandonato nel lungo corso degli anni furono motivazioni sufficienti a spingermi a varcare ancora una volta l’Oceano… Ma arrivai troppo tardi. Conoscendo Renzo, doveva aver previsto anche questo.

Non sono riuscito a collezionare molti dettagli sulla sua morte, se si eccettuano le testimonianze degli scarsi testimoni oculari, che possono giurare che il mio amico fosse alle rovine di Tulum la notte della più incredibile e unusuale tempesta di sempre. I guardiani del sito archeologico, la cui sorveglianza Renzo aveva eluso facilmente, da fine conoscitore dei luoghi qual’era, parlano di un immane gorgo formatosi misteriosamente a largo nella notte, accompagnato da un forte vento che aveva abbattuto gli alberi e da improvvisi rovesci di pioggia torrenziale. La tempesta apparve all’improvviso così come scomparve, dopo aver abbattuto la sua furia sulla costa per un’ora scarsa. Tutte le testimonianze e i bollettini metereologici confermano come il cielo fosse completamente sgombro di nubi e il mare calmo come una tavola, se si eccettua quella brusca e violenta interruzione. Sempre i guardiani mi raccontarono di esser stati svegliati pochi istanti prima dell’inizio della tempesta da un suono alto e profondo che squarciava la notte e che avevano identificato non a torto come il verso di qualche strano uccello che veniva dalla spiaggia. Precipitatisi lì, fecero appena in tempo a vedere il mio amico, già liberatosi dal suo abito talare e dalle pene terrene, affrontare noncurante le onde a nuoto in direzione del gorgo, per poi sparire per sempre tra i flutti.

Le guardie terrorizzate se la diedero subito a gambe e non possono aggiungere altro alla nostra storia, nè il black out che ha colpito il sito e la vicina Cancun aiuta a rendere attendibili le indiscrezioni di alcuni pescatori che quella notte erano in mare poco lontano dall’epicentro del fenomeno. Eppure non mi sento di ignorare i loro racconti, per quanto fantasiosi possano sembrare,  che dichiarano di aver scorto quella stessa notte una sagoma indistinta, di proporzioni colossali, emergere dall’ immane varco spalancatosi nel ventre stesso del mare, spiegare grandi ali membranose e chinarsi come per raccogliere con il braccio smisurato un relitto tra le onde, per poi scomparire poco dopo, tornando da dove era venuta.

 

L’ultimo scherzo di Padre Peraldi – prima parte

L’ULTIMO SCHERZO DI PADRE PERALDI

Un racconto di Simone Ceccano

Se voglio anche solo provare a spiegarvi il motivo del mio fastidio e l’ineliminabile sensazione di inquietudine che provo nel vedere tutti questi turisti sciamare come mosche attorno ad un cadavere in decomposizione, mentre osservo lo splendido blu del Mar dei Caraibi lambire la spiaggia sottostante alle maestose rovine del Castillo…

Se desidero che non vi prendiate gioco di me quando vi confesso che il semplice suono del canto di un tucano può gettarmi nel terrore più totale, neanche fosse il rintocco delle campane del Giorno del Giudizio… Allora non posso fare a meno di parlarvi di chi fosse Padre Peraldi, l’uomo la cui bara mi aspetta silenziosa e vuota nella chiesa della missione di Cancun che fu la sua ultima dimora terrena.

Oggi è il giorno del suo funerale, il tragico evento che mi ha fatto tornare qui alle rovine di Tulum, all’estremità meridionale del Messico, dopo trent’anni dal mio ultimo soggiorno qui e dalla mia conseguente e precipitosa fuga che mi portò a tornare in Italia e a forzarmi di dimenticare chi fosse quell’uomo che un tempo, forse con troppo azzardo, avevo chiamato amico.

Solo la sua ultima lettera, un vero e proprio testamento di chi aveva irrimediabilmente perduto la sanità mentale, mi ha spinto a vincere ogni paura e riluttanza e a salire su di un aereo per varcare di nuovo l’Oceano e rendergli l’estremo pietoso saluto.

Quanto tempo è passato dall’ultima volta che sono stato qui, nel ’60. Allora non c’erano tutti questi turisti con i loro bus chiassosi e volgari, ci si poteva arrivare solo via mare; anche se il complesso di rovine non era minimamente paragonabile allo splendido tesoro avvolto dalle spire della giungla, che eccitò la fantasia di John Lloyd Stephens e di Frederick Catherwood quando giunsero qui nel 1843, il luogo conservava ancora quel suo fascino arcano e misterioso che condusse Padre Peraldi a compiere il gesto che avrebbe portato alla sua morte terrena… E forse anche alla dannazione della sua anima.

Conosco Padre Peraldi da quando avevamo vent’anni. Rampollo di un’abbiente famiglia toscana trasferitasi a Roma, i soldi non gli erano mancati fin da piccolo, come pure una certa dose di singolare intelligenza, seppur volta troppo spesso a scopi sbagliati. Sembra un volgare luogo comune dire che il denaro non porta la felicità, ma se devo pensare alla suprema incarnazione di questo luogo comune non posso che ricordare Renzo, questo era il suo nome di battesimo.

Non certo di bell’aspetto, una precoce alopecia e la conseguente perdita totale dei capelli aveva contribuito a plasmare quell’immagine sgraziata e quasi scimmiesca che non gli aveva fatto riscuotere facilmente i favori dell’altro sesso. Nonostante questa disgrazia avesse compromesso nel profondo la fiducia che aveva in se stesso, Renzo aveva deciso di sfruttare quel tanto di intelligenza che almeno la Natura gli aveva donato e le risorse economiche della famiglia in molteplici e poliedriche passioni, quali la musica, la filosofia, lo studio della Storia, dell’archeologia e anche  di talune discipline rifiutate dalla scienza ufficiale.  Proprio quest’ultima passione lo aveva portato a possedere una rarissima ed inestimabile copia della traduzione in latino dell’infame Necronomicon, la cui lettura ossessiva nell’arco dei decenni successivi sarebbe stata cagione della tragedia che sto cercando di raccontare in queste pagine, che lascerò come suo ultimo epitaffio. Fallito il tentativo di riuscire nella musica, in cui non era minimamente portato, frustrati i suoi sforzi di conseguire un qualsivoglia successo accademico con i suoi studi, o di ottenere una pubblicazione delle sue ricerche fin troppo manieristiche sul medioevo giapponese, Renzo aveva rivolto tutti i suoi sforzi in un compulsivo collezionismo di tutto ciò che amava.

La sua casa di Roma era diventata un piccolo museo di armature giapponesi, elmi, berretti e divise degli eserciti più disparati, a partire dall’800 per finire ai due conflitti mondiali, per tacere dell’imponente raccolta di libri in edizioni rare e costose che non facevano altro che alimentare la sua frustrazione e il suo disappunto nel non essere riconosciuto tra quei grandi nomi e quei personaggi che riempivano la sua solitaria fantasia.

Si, perché Renzo Peraldi in fondo non era altro che un uomo solo. L’uso sporadico di psicofarmaci per lenire i suoi frequenti stati depressivi non avevano fatto altro che rendere inevitabilmente instabile il suo equilibrio psicofisico. Da questo erano scaturiti atteggiamenti che pian piano gli avevano alienato molte delle sue vecchie amicizie, specie quando Renzo si abbandonava a scatti d’ira, atteggiamenti violenti e maneschi che non riusciva a controllare, alternati a crudeli scherzi di dubbio gusto che, dopo aver placato per breve tempo il suo ego eternamente insoddisfatto, gli lasciavano il vuoto attorno, facendolo piombare di nuovo nella più totale disperazione.

Arrivato all’età di 35 anni, stanco del silenzioso museo che era diventata la sua prigione e dei vuoti simulacri di amore che il denaro poteva pagargli con donne di facili costumi, Renzo aveva preso una decisione che aveva sconvolto e lasciato attoniti i pochi amici che gli erano rimasti. E fu così che una parte dell’uomo che avevamo conosciuto morì per sempre, quando Renzo prese i voti e divenne Padre Peraldi, partendo in missione per il Messico, a Cancun.

Passarono quasi dieci anni, senza che avessimo molte notizie su di lui, se non che aveva svuotato il suo appartamento di Roma donando tutti i suoi cimeli alla Missione di Cancun, dove aveva allestito una piccola biblioteca e un museo accessibile ai poveri del luogo. Conoscendolo, più che un’opera di bene non era stato altro che un atto egoistico per non separarsi dagli oggetti che in qualche modo lo legavano alla sua vita precedente. Quando infine lo raggiunsi, scoprii che aveva portato la copia del Necronomicon con sé, riuscendo a tenerla nascosta agli occhi curiosi e bigotti dei suoi confratelli.

Le frequenti visite alle vicine rovine di Tulum e lo studio di alcuni passi dell’aborrito libro scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred, uniti alla rilettura delle cronache della scoperta del sito da parte dello spagnolo Juan de Grijalva e di alcune leggende locali sopravvissute alla scomparsa della civiltà Maya, lo portarono a trarre le conclusioni che furono motivo scatenante della lettera che portò ad incontrarci di nuovo. Quanto lui era stato appassionato del Medioevo giapponese, tanto io mi ero dedicato nei miei studi dilettanteschi alla conoscenza delle leggende delle civiltà precolombiane, studi che non avevano esitato a oltrepassare quello che la scienza ufficiale ritiene lecito, ma senza la credulità che oramai aveva soggiogato la mente di Renzo. Dal tono fanatico della sua lettera, accompagnata da un biglietto aereo per il Messico, in cui mi accennava ad un’eccezionale scoperta senza peraltro lasciar trasparire nessun altro indizio, capii che il motivo del suo ritorno in scena non era la gioia di rivedermi: aveva semplicemente bisogno del mio aiuto. Nonostante questa consapevolezza, la mia curiosità nel ritrovare un vecchio amico e vedere uno dei luoghi che avevo sempre sognato di visitare mi fece rompere ogni indugio. Due giorni dopo ero già in volo per il Messico e la mattina successiva un vecchio maggiolino Volkswagen adibito a taxi mi portò all’entrata della missione di Cancun ‘Alivio del Sufrimiento’ dove avrei finalmente rivisto Padre Peraldi. [continua…]