Riflessioni per l’estate…

 

Molte volte quando ci si avvicina alla narrativa custodita in questo blog, il lettore reagisce con una risata argentina leggendo quali segreti la Cripta tramanda al mondo dei vivi. Chi crede che certe verità siano frutto di una fervida immaginazione avrà fatto la stessa sciocca valutazione che fecero i contemporanei di Bram Stroker. Eppure amici, lettori, è davvero semplice rendersi conto che il mondo in cui viviamo è pieno di segnali che permettono di illuminarci verso quelle verità che si celano nei secoli di questo vecchio e malconcio pianeta.

Ad esempio è notizia recente che in Bulgaria sono stati scoperti due scheletri. Ritrovati senza denti (rimossi per precauzione), vicino ai corpi è stato rinvenuto un pugnale di ferro, con cui erano stati colpiti più volte al petto. I cadaveri erano stati sepolti tra le rovine di una chiesa abbandonata vicino la cittadina di Sozopol, sul Mar Nero. I denti rimossi, il pugnale di ferro lasciato accanto ai cadaveri, sembra l’incipit di un racconto, eppure è soltanto la realtà.

Se decidete di avvicinarvi a questo luogo, alla nostra Cripta, fatelo in punta di piedi… magari così eviterete che i morti si trasformino in vampiri…

Buona Lettura

Luca e Simone

 

 

Il canto del Leviatano – ottava parte

IL CANTO DEL LEVIATANO

Un racconto di Simone Ceccano

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VIII

L’avvocato di Charleston

Pochi attimi dopo dal recinto di Alberi del Drago si udirono altri spari e alcune scimmie caddero al suolo colpite. Questo diversivo le fece agitare e gridare di nuovo, perlomeno avevano smesso di fissarmi. Poi dal sottobosco sbucarono fuori cinque arabi con fucili di precisione, iniziarono a sparare alle scimmie mentre io mi appiattivo sull’erba per evitare di essere colpito a mia volta. Con orrore vidi che le scimmie colpite rimanevano a terra pochi istanti, poi si rialzavano in piedi e iniziavano di nuovo ad urlare ed agitarsi. Nessuna traccia di sangue fuoriusciva dai corpi di quelle bestie spettrali. Già due degli arabi erano stati assaliti mentre gli altri continuavano a sparare disperatamente. Credetti di vomitare mentre assistevo all’orrenda sorte di quei due poveretti. Le scimmie ne stavano facendo scempio, dilaniandoli con gli artigli e con i denti affilatissimi. Gli altri tre si erano appostati dietro una roccia che solitaria si ergeva in mezzo alla radura, continuavano a sparare ma le scimmie erano inesorabili. Poi una figura assurda in quel momento sbucò fuori dalla boscaglia attraversando di corsa il prato come un grottesco spaventapasseri. Aveva una sahariana nera, degli occhiali scuri a goccia e la carnagione chiara scottata dal sole dei tropici. In mano teneva un oggetto che somigliava in qualche modo ad un crocifisso, eppure in quel momento non riuscii a distinguere esattamente cosa fosse la figura inchiodata a quella croce. Al suo passaggio le scimmie si ritraevano inorridite, come se qualcosa in quel simbolo blasfemo retto da quell’uomo le rendesse impotenti e terrorizzate. L’uomo brandiva il crocifisso girando su se stesso mentre a grandi passi veniva verso di me. In pochi minuti tutte le scimmie erano fuggite dalla radura e si erano perse nel folto della giungla di Dracaenae, lasciando i due morti riversi sull’erba a guardare il sole senza più occhi e i tre superstiti a tirare il fiato, scampati ad una morte certa. La figura in sahariana si fermò di fronte a me e mi tese la mano. “Avvocato Jason Pickett di Charleston. Mi dia la mano, venga e faccia presto.” Feci appena in tempo ad udire queste parole che i miei nervi, che avevano retto fin troppo a lungo, crollarono di colpo e svenni. Mi risvegliai su una jeep che correva veloce per un sentiero che attraversava la jungla con accanto l’uomo misterioso e i tre arabi che sedevano dietro che guardavano gli alberi terrorizzati, come se si aspettassero da un momento all’altro di vedere sbucare dai rami sopra di noi le diaboliche scimmie. L’uomo dalla sahariana nera si accorse del mio risveglio: “E’ un piacere conoscerla… Lei è il professor Francis Seagull, suppongo. Il professor Odissei mi ha parlato molto di lei, anche se ama chiamarla il Fantasma, non so per quale motivo.” Annuii. “E’ un soprannome che risale ai tempi del college, quando ero un campione di skateboard, prima di iniziare la carriera accademica. Penso che mi rimarrà cucito addosso per il resto della vita. Detto questo, suppongo di doverla ringraziare, mi ha salvato la vita…” Pickett rispose con una sonora risata e poi non disse più nulla, concentrandosi sulla guida. Ora la strada si avventurava in una serie di saliscendi che insieme alle radici degli alberi che la invadevano sembrava mettere a dura prova le sospensioni della jeep. Dal canto mio seguii il suo esempio e non aprii più bocca, e questo perché qualcosa si era risvegliato nella mia memoria, ora che lo shock per l’aggressione delle scimmie era passato. Per quanto fosse incredibile trovare lì quell’uomo nell’equipe di Marcelo, non era la prima volta che sentivo parlare di quell’avvocato di Charleston. Ero amico di lunga data con il giudice in carica in quella città, Stephen Somogy. Solo pochi mesi prima della mia partenza, a cena a casa sua con mia moglie Amalia, il giudice Somogy mi aveva raccontato la sua storia, che a Charleston era sulla bocca di tutti. Jason Pickett un tempo era stato considerato una delle giovani promesse dell’avvocatura del Sud. Pare che il brillante giovanotto avesse però anche il brutto vizio di drogarsi e questo, unito alla morte misteriosa della sua fidanzata e del suo migliore amico, lo avesse pian piano fatto uscire di senno. Dopo il duplice decesso, pare in entrambi  i casi avvenuto la stessa maledetta notte, Pickett aveva abbandonato la professione ed aveva iniziato un interminabile girovagare per tutto il Paese, fino a spingersi in Messico, come nel tentativo di fuggire chissà da chi o che cosa. Qualunque fantasma lo avesse spinto a lasciare Charleston, Pickett era ormai ricercato in dodici Stati dai federali, perché sospettato di essere l’autore di una serie di strani ed efferati omicidi che avevano avuto origine nella sua città natale, per poi svilupparsi in un’interminabile spirale di orrore e follia. Per motivi fin troppo sospetti, i delitti (dovrei dire delle autentiche stragi, con puntuale e successivo macabro rituale di cannibalismo!) erano avvenuti quasi sistematicamente nelle città scelte da quell’uomo per il suo tormentato pellegrinaggio senza sosta. Rabbrividii mentre lo osservavo fischiettare alla guida della jeep, con lo strano crocifisso legato ad una catena d’argento che ogni tanto faceva capolino dalla camicia aperta a seconda delle oscillazioni del veicolo. Cosa aveva spinto Marcelo ad assoldare un uomo simile? E cosa c’era in quel crocifisso tanto da terrorizzare scimmie così feroci? Non sarebbe mancato molto che le mie domande avrebbero avuto ognuna la propria risposta. Pazzo pluriomicida o meno, Jason Pickett mi avrebbe condotto sano e salvo fino alle rovine del fortino britannico che Marcelo aveva scelto come base operativa. La costruzione era praticamente intatta in molti punti, sorgeva in cima ad un’erta collina erbosa, al centro di una radura che si apriva come una ferita nel bel mezzo della giungla intricata. Il panorama da quella posizione era mozzafiato, con l’antico vulcano che si ergeva maestoso in lontananza. Io e gli arabi udimmo gli ultimi fruscii sospetti tra il fogliame, poi uscimmo dalla giungla e finalmente tirammo un sospiro di sollievo. [continua…]

(pubblicato originariamente su LEGGENDE DALLA CRIPTA DI CTHULHU parte LIV del 29 settembre 2010)

La fantasia di Kaisul – seconda parte

LA FANTASIA DI KAISUL 

Un racconto di Simone Ceccano

 

Roma, anno 2030. “Fate largo, fate largo!” Urlava l’uomo che si sporgeva dal finestrino dell’ambulanza  in un bizzarro miscuglio di italiano e rumeno, lingue entrambe incomprensibili alla maggior parte dei presenti, mentre cercava disperatamente di fare strada al veicolo sgangherato nel bel mezzo di una torma vociante di filippini che si era radunata al centro della carreggiata attorno al corpo esanime di un uomo di mezza età, presumibilmente italiano. Il 40enne, le cui condizioni ormai non lasciavano speranza, era stato colpito in testa da una pietra proprio da uno di quei filippini, la Polizia Islamica era accorsa con il solito ritardo e il colpevole se l’era probabilmente data a gambe. Anche se non fosse stato così, per il commissario Mohammar sarebbe stato lo stesso, in fondo per lui i Filippini erano tutti uguali: ostinatamente cattolici – forse gli unici a non aver oltrepassato il confine – cocciuti e particolarmente omertosi, dono questo che avevano ereditato dagli italiani rimasti nella Città Eterna, non molti a dire il vero. Due di questi, anch’essi sulla quarantina, erano proprio in piedi di fronte al corpo. Sostenevano che la vittima fosse un vecchio amico che vent’anni prima aveva vissuto con loro in quel condominio ai margini della città, in quella periferia ormai diventata una piccola Manila nel cuore della capitale del più grande Stato islamico d’Europa. Pare che Ruggero, questo il nome del poveraccio colpito dalla pietra, fosse un uomo incapace di far del male ad una mosca, nonostante i disturbi mentali di cui soffriva da decenni.

Ciononostante, una donna e un bambino filippino, che ogni tanto mollava un impietoso calcione al corpo esanime, mostravano al commissario Mohammar delle lievi ustioni su braccia e gambe, dovute secondo loro ad un tizzone infuocato, che la vittima aveva utilizzato per aggredire la folla, urlando parole sconnesse e in preda ad un’inspiegabile rabbia. “Orchi! Orchi!” gridava l’uomo prima che uno sconosciuto, dopo aver visto la donna e il bambino feriti, aveva scagliato il sasso rivelatosi fatale.

“Faccio fatica a parlare un italiano corretto.” Ammise il commissario malcelando il forte accento libico, mentre il corpo dell’uomo veniva caricato sull’ambulanza, che in ultimo era riuscita a farsi largo. “Signor Valesini, signor Edoardo, non so che pensare. Che problemi aveva il vostro amico? Cos’è che lo ha spinto a tornare qui dopo vent’anni? Da come era vestito, sembrava appena scappato da una corsia di ospedale…”

L’uomo chiamato Valesini scosse al testa. “Vede signor commissario, non è semplice spiegarle. Riguardo all’ultima domanda non saprei darle una risposta. Nessuno sa davvero che scherzi può giocare una mente umana irrimediabilmente compromessa.”

“Ruggero era un nostro amico, anche se non ci vedevamo da anni.” Intervenne Edoardo aggiustandosi gli occhiali. A tratti era interrotto da una leggera balbuzie, rendendo il compito ancor più arduo al povero commissario Mohammar che doveva seguire il discorso. “Ci conoscevamo fin dai tempi in cui eravamo ragazzi, quando nessuno avrebbe mai immaginato che l’Italia sarebbe diventata una Repubblica Islamica. Spesso ci riunivamo qui la sera con altri amici da tempo scomparsi. Non le spiegherò cosa sono i Giochi di Ruolo perché so che ora sono vietati e un uomo di legge come lei non si comprometterebbe mai con sciocchezze simili.” Il commissario annuì con un’espressione imbarazzata ed eloquente.

“Beh, la vita non era facile neanche nella vecchia Roma in cui siamo cresciuti,” continuò Edoardo.  “Eppure, per due o tre ore alla settimana, quei giochi di fantasia ci aiutavano a tirare avanti, giorno per giorno, e a dimenticare le piccole amarezze della vita quotidiana. Almeno per noi era così, ma per Ruggero negli ultimi tempi era diventato sempre più difficile tracciare il confine tra la realtà e la fantasia…” Valesini nel frattempo annuiva in silenzio, osservando amaramente con la coda dell’occhio l’ambulanza andare via con il corpo senza vita dell’amico ritrovato, vestito solo di un camice bianco e di sandali che dovevano aver visto giorni migliori.

La Polizia Islamica nel frattempo era riuscita nell’arduo compito di sgombrare la folla, mentre la donna e il bambino feriti erano stati portati via per essere medicati e poi interrogati. Il commissario Mohammar, da parte sua, sembrava sempre più confuso, aveva spento il sigaro sull’asfalto e si grattava la testa con un’espressione impagabile. “Andate al dunque…” Incalzò tossendo vistosamente.

“Beh, c’è poco da dire.” Rispose Edoardo ripetendo il ‘Beh’ almeno quattro volte. Mohammar, viste le circostanze, si morse la lingua pur di non ridere. “Una sera di vent’anni fa, durante una sessione di gioco qualunque, qualcosa nel cervello di Ruggero scattò pregiudicando irrimediabilmente la sua salute mentale.”

“E io mi sento in qualche modo responsabile di quello che è accaduto a Ruggero, commissario!” Interruppe Valesini sbrogliando il bandolo della matassa. “Quella sera dirigevo io il gioco ed erano settimane che ci eravamo accorti del progressivo distacco dalla realtà di Ruggero. Era come se rifiutasse la vita reale e la ponesse in secondo piano rispetto a quella virtuale che mettevamo in scena in quelle nostre riunioni. Per questo, quella maledetta notte, decisi di far morire il suo personaggio nel corso della partita, il dannato Kaisul, il servitore dell’Eterna Fiamma Danzante.”

Mohammar era un uomo semplice. Prima della Grande Migrazione, prima della vittoria delle forze del Colonnello Gheddafi nella sanguinosa guerra civile libica e della successiva invasione dell’Italia, era stato un ufficiale dell’esercito, pratico, pragmatico e poco incline ai voli di fantasia. Provava sincera pietà per la sorte dell’uomo che aveva terminato il suo lungo viaggio con la testa fracassata e che ora era diretto in una fredda camera mortuaria per l’autopsia. Ma veniva da un mondo che nemmeno lontanamente collimava con quello evocato dai due italiani nei loro ricordi, non aveva gli strumenti per capire e sempre più lo insidiava il sospetto strisciante di avere a che fare con due pazzi non da meno di quello che ci aveva rimesso la pelle. “Continuate…” Mormorò scuotendo la testa.

“Quella notte credetti di aver ucciso Kaisul.” proseguì Valesini puntando gli occhi a terra. “Invece l’unico risultato che ottenni fu quello di uccidere Ruggero. E’ vero, prima del fattaccio lo avevamo sfottuto amichevolmente come eravamo soliti fare. Lo facevamo per scuoterlo, per svegliarlo. La fantasia di Kaisul era la canzoncina che cantavamo sempre quando ci accorgevamo che Ruggero aveva superato il limite e non riusciva più a distinguere il gioco dalla realtà. Lui naturalmente ogni volta andava su tutte le furie e quella sera non era stato da meno. Ma quando vide il suo personaggio ucciso da un’orda di orchi fu troppo per lui. Rimase quasi in stato catatonico per qualche decina di minuti, insensibile alle provocazioni esterne. Lo sguardo vitreo, perso chissà dove, sembrava davvero quello di un cadavere morto ad occhi aperti. Poi ad un certo punto si alzò, scrutò impassibile tutti i presenti e disse solo queste parole: “Neanche la morte può uccidere la fantasia.” Quindi corse via e si chiuse nella sua stanza. Sono le stesse parole che ci ha detto oggi, prima di chiudere gli occhi per sempre…”

Valesini distolse lo sguardo dall’imbarazzato commissario, lottando contro lacrime affioranti e sensi di colpa che pensava di aver sepolto per sempre. Negli ultimi vent’anni aveva spesso ripensato a quella notte in cui in un certo senso avevano visto per l’ultima volta Ruggero. Udire di nuovo quelle parole, quelle stesse parole, era stato per lui un colpo troppo grande. Ci pensò Edoardo a soddisfare le residue curiosità del commissario. Raccontò come il giorno successivo Ruggero avesse iniziato a comportarsi come fosse Kaisul, a parlare come lui, agire come lui, persino a vedere il mondo con i suoi stessi occhi!

All’inizio tutti pensarono fosse nient’altro che uno scherzo, una piccola vendetta di Ruggero per la morte del suo personaggio. Ma quando passarono i giorni e infine le settimane fu chiaro a tutti che la cosa si stava facendo seria: Ruggero aveva perso completamente il senno. Sopportarono la situazione ancora per qualche mese, nascondendo quello che era accaduto alla madre e al fratello. Cercarono di non farlo uscire di casa per paura potesse farsi del male, incapace com’era di percepire la realtà attorno a lui. Ma la faccenda si faceva ogni giorno più difficile, Ruggero, o sarebbe meglio dire Kaisul, cominciava ad abbandonarsi sempre più spesso a manifestazioni violente se non assecondato. Ci furono un paio di liti con Valesini che rifiutava in qualche modo di accettare che l’amico fosse diventato totalmente pazzo, per giunta in un certo senso a causa sua; volarono qualche pugno e un po’ di insulti, niente più. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando Kaisul, spolverando tutto il suo zelo religioso, aggredì la fidanzata di Edoardo, che si era rifiutata di adorare il Grande Dio del Fuoco mentre cucinava per tutti. Fu un miracolo che Lucia non fosse deturpata dall’olio bollente che il sacerdote pazzo gli scagliò contro. Fu altrettanto un miracolo che quella notte Edoardo non abbia ammazzato l’amico che aveva avuto accanto fin dai tempi del Liceo, limitandosi solamente a rompergli il naso. Ormai era chiaro a tutti che Ruggero non sarebbe più tornato e divenne perciò inutile tenere il segreto. La famiglia seppe delle sue condizioni e Ruggero lasciò Roma, la città in cui era cresciuto, per tornare a Catania, la città in cui era nato. Tornò, ma in un manicomio e senza apparenti speranze di uscirne. Per gli amici inizialmente il distacco fu più facile del previsto. In fondo per loro Ruggero era morto da tempo, quella sera stessa in cui Kaisul era stato massacrato dagli orchi. La famiglia, inutile dirlo, fu invece devastata dal dolore. Dal canto suo, Ruggero sembrò non provare nulla. Era sereno, parlava di un lungo viaggio che doveva compiere per completare il suo ‘addestramento’, ogni comunicazione con la realtà esterna poteva dirsi ormai irrimediabilmente interrotta.

I primi tempi, Valesini, Edoardo e gli altri componenti del nutrito gruppo che si riuniva ogni settimana nell’attico ai margini della periferia di Roma, andarono di tanto in tanto a trovare l’amico nella casa di cura di Catania, per tornare sistematicamente immalinconiti. Non c’era alcun segno di miglioramento, le ultime volte Ruggero sembrava addirittura non riconoscerli più. Quella disgrazia colpì tutti profondamente, d’altronde come poteva essere altrimenti? Un’ombra calò sulla compagnia di amici e presto le sedute di gioco si fecero più rade, fino ad interrompersi del tutto, con tacito e unanime assenso dei partecipanti. Tra tutti, Valesini in particolare perse completamente l’allegria e il sarcasmo che lo avevano sempre contraddistinto e da quel momento non fu più lo stesso.

Poi il mondo sembrò impazzire davvero e la piccola tragedia personale di Ruggero non divenne altro che un insignificante tassello di un puzzle partorito dalla mente del dio folle e beffardo che ogni tanto rimescola il calderone della Storia. La crisi economica che sconvolse l’Europa, la guerra civile in Libia e le rivolte nei paesi arabi, la grande migrazione che si riversò come un maremoto incontrollabile sul vecchio continente dalle fondamenta ormai scricchiolanti, l’invasione dell’Italia centro-meridionale da parte dei libici e la secessione delle regioni del Nord, la guerra, i disordini di piazza, le decine di migliaia di morti… Quando la marea finalmente si ritirò, del vecchio mondo che gli europei e gli italiani in particolare avevano conosciuto non erano rimaste che le macerie e i sopravvissuti non avevano avuto altra scelta che integrarsi nel nuovo contesto o fuggire altrove, dove le vestigia di quella che un tempo era stata la culla della civiltà occidentale erano riuscite in qualche modo a sopravvivere.

Nemmeno la compagnia di amici fu risparmiata dalla colossale tempesta. Marcello e Simone, che nel mondo di fantasia erano stati Zeno il pedante gnomo e Kacce l’infido negromante seduttore d’ingenue fanciulle, erano rimasti uccisi da alcuni cecchini in un tumulto di piazza durante l’assedio di Roma. Lo stesso giorno Lorenzo, alias Trozano il Nero, il barbaro dalla spada affilata quanto la sua lingua, era stato gambizzato ed era rimasto per sempre costretto su di una sedia a rotelle. La Sicilia intanto era lontana e resisteva agli invasori pagando il prezzo sempre più alto di un giornaliero bagno di sangue. Di Ruggero si persero irrimediabilmente le tracce, almeno fino al giorno in cui era miracolosamente riapparso, solo per trovare un epilogo che mettesse fine per sempre alla sua follia.

“E questo è davvero tutto commissario.” Concluse Edoardo finendo l’ultima frase senza neppure balbettare. Il commissario Mohammar si mise entrambe le mani sulla testa, confuso dal racconto che aveva quasi dell’incredibile e ormai certo di essere capitato in una gabbia di matti. Assicurò ai due italiani che avrebbe provveduto personalmente a dare una degna sepoltura al loro sventurato amico e tornò in fretta e furia nel suo ufficio, con la mente piena di dubbi e domande a cui solo parzialmente sarebbe riuscito a dare una risposta.

Valesini ed Edoardo dal canto loro rientrarono in casa, dove Lorenzo, l’unico altro sopravvissuto dell’allegra compagnia di un tempo, aveva assistito alla morte di Ruggero dall’alto del terrazzo. Aveva lo sguardo fisso verso l’orizzonte e la città poco distante, imprigionato sulla sedia da non cui poteva alzarsi.

“Era Ruggero, vero?” disse senza voltarsi ai due amici appena rincasati.

“Si, era proprio lui.” Risposero i due contemporaneamente con un filo di voce. “La polizia ci farà sapere quando e dove sarà seppellito, dopo gli accertamenti del caso.”

“Ha detto qualcosa prima di… di…” provò ad incalzare l’uomo barbuto lottando contro il groppo in gola, mentre stringeva i braccioli della sedia a rotelle con tutta la forza delle braccia in cui ormai era concentrato il suo residuo vigore.

“Le sue ultime parole sono state… Beh… Le stesse di quella sera, che neanche la Morte può uccidere la fantasia.” replicò Valesini con un sorriso amaro. “Ironico, non è vero?” Aggiunse. “In fondo è stata proprio la fantasia ad ucciderlo…” Lorenzo non rispose. In realtà nessuno aveva granché voglia di aggiungere altro in quel momento, e dopo aver fissato ancora per qualche attimo l’uomo seduto di spalle, Valesini ed Edoardo si diressero in silenzio verso le proprie stanze e l’argomento tacitamente non fu più toccato fino al giorno del funerale.

L’uomo rimasto solo sul terrazzo silenzioso continuò a fissare l’orizzonte tingersi di rosso dietro le sagome dei palazzi lontani, mentre cercava di convincersi che le lacrime che solcavano la sua barba fluente fossero dovute solamente al fumo di sigaretta che gli era finito negli occhi. Ma le lacrime non smisero di scendere neppure quando la sigaretta fu buttata di sotto, come pure, per quanto grottesco possa sembrare, un martellante motivetto non riusciva a smettere di echeggiare nella sua testa, come un’incessante litania blasfema e beffarda: “La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul…” [continua…]

L’isola fantasma – quinta e ultima parte

L’ISOLA FANTASMA

Un racconto di Luca Nisi

 

 

Il suo alloggio era una piccola camera composta da un letto,  un armadio, una scrivania e il bagno. Un piccolo oblò come finestra mostrava uno spicchio di Plutone mentre sulle pareti c’erano le fotografie in bianco e nero delle precedenti missioni della Nasa nello spazio.

Le parete erano grigie così come le lenzuola della sua branda. L’unica cosa colorata era la fotografia, che ritraeva Noemi, sopra la scrivania. 

La giovane iguana che era stata compagna di giochi del bambino Marcus, era stata fotografata insieme a lui in una bellissima giornata di sole nella casa paterna.

Marcus si tolse l’uniforme ed entrò nella doccia sonica. Quegli ultrasuoni che avevano il compito di ripulire il corpo su Marcus sembravano avere un effetto rilassante e quei pochi istanti al Tenente Schwartz sembrarono davvero minuti di pace. Finalmente, lontano da tutto quel caos a cui era andato incontro. Socchiuse leggermente gli occhi come per addormentarsi e di nuovo un’orrenda visione lo possedette.

Prima, come in un flash back, fu di nuovo su quel pianeta infernale mentre scappava da quella bestia immonda, ma questa volta percepì nitidamente che “qualcuno” lo aveva aiutato a  condurlo lontano dal sangue, dal tumulto, dalle grida e dai morti che galleggiavano oscenamente in quell’oceano di sangue.

Infine la visione lo condusse in una specie di sito archeologico sormontato da un gigantesco sole rosso nel cielo. Davanti a lui delle rovine sconosciute e all’orizzonte un infinito deserto. Vide centinaia di anfore perfettamente squadrate e quando  si avvicinò per scrutarne il contenuto fece un’orribile scoperta. In quei vasi antichi c’erano conservati scheletri intatti di bambini. Sorpassato quel macabro magazzino c’era uno scavo dal quale emergeva il resto di un muro, forse un acquedotto, quello che vide non furono solo i resti del materiale usato per costruirlo, osservò che tra i sassi e il fango spuntavano tantissime ossa umane. Sembrava di osservare una grande discarica di corpi. Quando il sibilo della doccia sonica si interruppe Marcus riaprì gli occhi e si ritrovò a sudare freddo. A quel punto  era completamente scoraggiato da tutto quello che gli stava capitando. Decise di radersi visto che la barba non faceva parte della divisa della Nasa.

Però, quando si trovò dinanzi lo specchio con il suo rasoio laser in mano, non ci riuscì. Qualcosa lo fermò. A malapena tornò nella camera da letto,  dove molto lentamente si rivestì.

Completamente in balia di un requiem scritto per lui si sedette senza far rumore sul letto, aspettando una chiamata del suo superiore o di chi o cosa si era messo a tirare i fili della sua vita.

Nel primo pomeriggio il Tenente Marcus Schwartz fu chiamato nella sala tattica dell’ufficiale capo della stazione orbitante Arkham.

L’ufficio del suo superiore era un freddo ambiente posto sul lato esterno della base rispetto a Plutone. Marcus si presentò in perfetto orario, il suo aspetto era davvero preoccupante, la barba era lunga e malcurata ed il viso del pilota era quello di un ragazzo che si stava inspiegabilmente lasciando andare. 

Sopra la scrivania del capitano c’era una grande fotografia della sonda New Horizons, il primo mezzo terrestre a raggiungere Plutone e Caronte per poi spingersi oltre la fascia di Kuiper. 

Chissà se quella sonda lanciata nel lontano 2006 aveva incontrato anch’essa quell’isola fantasma che aveva letteralmente cambiato per sempre la vita di Marcus.

 

“Tenente ho letto con grande attenzione il suo rapporto.  Analizzando razionalmente quello che ha riferito,  mi pongo diverse domande. La prima: tenente, lei è completamente impazzito? Sta tentando di farsi trasferire sulla Terra? Oppure in decenni di esplorazione trans nettuniana non ci siamo mai accorti di un pianeta e soprattutto, di quello che secondo lei nasconde? Qui in queste pagine si riscrive la storia dell’umanità: non siamo soli nell’universo.” Disse in tono di scherno il capitano della stazione orbitante Arkham.

Marcus si limitò ad annuire, mentre nella stanza entrarono altre due persone, un supervisore civile e l’ufficiale medico della base. Il capitano Max Frontier riprese a parlare.

“Abbiamo verificato le coordinate del pianeta che lei avrebbe scoperto e ribattezzato Isola Fantasma; purtroppo Marcus là fuori non c’è nulla di quello che lei afferma.”

Marcus annuì e il capitano riprese il suo monologo.

“Abbiamo controllato tutte le attrezzature, le registrazione dei sensori della nave, non abbiamo trovato niente. Marcus mi dispiace deluderla ma non ci sono prove concrete per avvalorare le sue parole.”

Marcus accennò una piccola reazione e sbiascicò: “Vi dico che c’era.”

Il supervisore civile prese la parola: “Tenente secondo il suo rapporto lei avrebbe scoperto una grotta nel tentativo di recuperare la sonda esploratrice?” Marcus annui con la testa. “Non voglio entrare nel merito di quello che avrebbe scoperto dopo, che lei spiega dettagliatamente nel suo rapporto. La storia più strana è la vicenda del suo casco, lei ha dichiarato che dopo una caduta la visiera si era incrinata e rotta. Mi chiedo, come può essere sopravvissuto?”

Fece una pausa. “Tenente, lei è un ufficiale esperto, sa benissimo cosa potrebbe accadere: deterioramento dei tessuti molli, esposizione diretta a radiazioni di ogni tipo e, ovviamente, la mancanza di aria da respirare. Facendola breve, lei dovrebbe essere morto.”

Marcus si limitò a rispondere: “E’ come se lo fossi.” 

Il capitano Max Frontier era seduto sotto la grande diapositiva della sonda New Horizons e osservava Marcus. Non riusciva più a riconoscere il suo fidato ufficiale,  barba lunga, sguardo perso nel vuoto. Dov’era ferito il giovane ufficiale che durante i voli d’addestramento cantava a squarciagola le vecchie canzoni di Frank Sinatra?

Il medico di bordo prese la parola: “Marcus. Analizzando il rapporto e i sogni che hai descritto stamattina in infermeria, dobbiamo anche considerare che molto probabilmente tu possa aver immaginato tutto. Una diagnosi preliminare potrebbe indicare uno stress spaziale. Magari hai attraversato una tempesta ionica, non conosciamo ancora del tutto le conseguenze che può portare sulle funzioni neurali.”

Marcus scosse la testa e poi rise. Era una risata amara, d’un tratto alzò lo sguardo verso i suoi superiori. “Voi non capite, io sono stato su quel pianeta e ho attraversato una specie di passaggio verso un altro universo e ho  visto qualcosa che presto si riverserà implacabile nel nostro. Non siamo soli e soprattutto siamo e saremo soltanto cibo.”

Il capitano Max Frontier sbottò contro il suo ufficiale,  gli ordinò di abbandonare immediatamente la riunione e di confinarsi fino a nuovo ordine nel proprio alloggio. Marcus rimase in silenzio, guardò ancora una volta i suoi superiori, che continuavano a fissarlo sbigottiti e delusi. Poi si alzò dalla sedia e fece un passo verso l’uscita, però prima di afferrare la maniglia della porta si girò di nuovo verso i tre uomini. “Volete davvero una prova?” Sussurrò a malapena.

Marcus si slacciò la divisa bianca e grigia della Nasa e rimase a torso nudo di fronte a quelle persone che lo credevano pazzo. I tre uomini istintivamente sobbalzarono increduli dalle loro sedie, il supervisore urlò come una donnicciola, il medico rimase muto ed immobile davanti alla scena, mentre il capitano portò istintivamente la mano destra alla pistola laser, ma non riuscì né a parlare né ad estrarre l’arma tanto era sconvolto da quello che aveva di fronte.

Dinanzi a loro c’era il giovante Tenente Marcus Schwartz a torso nudo. Il suo busto era completamente ricoperto da terrificanti occhi bianchi, che orrendamente vivi li fissavano muovendo quell’unico iride in un modo cosi anormale da impietrire l’anima di qualsiasi essere umano.

“Non siamo soli.” Ripeté amareggiato Marcus prima di ricoprire quei terribili occhi ed uscire lentamente dalla sala tattica della stazione orbitante Arkham.

La fantasia di Kaisul – prima parte

LA FANTASIA DI KAISUL

Un racconto di Simone Ceccano

 

“Cosa è successo alla mia città? Cosa è successo alla mia città, maledetti mostri!” urlava a squarciagola  il giovane Kaisul in preda ad una folle rabbia, brandendo il suo bastone del fuoco, mentre le vesti scarlatte ricamate di inserti d’oro ondeggiavano attorno al suo corpo madido di sudore nello squallido meriggio dei malfamati sobborghi della città di O’Ram. Attorno a lui dalle misere casupole e torri cadenti punteggiate di miriadi di finestre oscurate da travi di legno sconnesse, erano sciamate delle creature che sembravano grottesche parodie di essere umani. La pelle cadente e rugosa di un colorito grigiastro tendente al verde, la dentatura pronunciata e irregolare insieme agli occhi porcini dall’iride rossa non lasciavano spazio a dubbi. Non si trattava certamente di esseri umani, ma di orchi.

“Orchi! Orchi!” gridava Kaisul con la bava alla bocca roteando il bastone attorno a sé per tenerli lontani. “Cosa avete fatto alla gente come me? Dove sono finiti i miei compagni? Ricaccerò la vostra immonda progenie negli abissi da cui proviene, monderò la sacra O’Ram dalla vostra sporca infezione con i poteri che gli dei mi hanno donato!” Gli orchi indietreggiavano alla vista del bastone e dello scintillante rubino incastonato in cima ad esso. Invero, alcune di quelle creature, certo le più avide e screanzate, guardavano alla gemma con malcelata avidità, ma non osavano avvicinarsi al giovane sacerdote degli Dei del Fuoco, per paura di chissà quale sortilegio che la sua giusta ira avrebbe abbattuto su di loro se avessero osato strappargli il bastone dalle mani.

Kaisul mancava da O’Ram da molti anni. Lontane nel tempo erano ormai le avventure passate con i suoi compagni d’arme da quando aveva deciso di lasciare la Città Sacra per ritornare nella sua isola natale, laggiù  nel Sud, per completare il suo addestramento. Ma ora che il vascello dalle vele nere lo aveva sbarcato di nuovo in quella che per lungo tempo era stata la sua casa, le brutte sorprese si erano susseguite una dietro l’altra. Fin da subito aveva trovato irriconoscibile l’antica metropoli costellata di cupole e di templi ormai in stato di abbandono, i suoi antichi abitanti dovevano essere andati a dimorare altrove e Kaisul si era trovato di fronte ad un crogiuolo di razze e lingue che non aveva mai visto e udito prima. Una smorfia di disgusto aveva contratto il suo volto nel vedere calpestare gli antichi selciati in pietra nera da goffe zampe di non umani e infine le lacrime erano scese copiose quando aveva trovato i battenti del colossale Tempio dei Pensatori chiuse per mancanza di fedeli. Nessuno veniva più a chiedere udienza ad Appa il Saggio, il più antico dei sacerdoti del Regno; l’oro delle offerte non tintinnava più nelle cassette in mano ad avidi sagrestani, nessun anima pia ascoltava rapita il suono delle campane elevando il proprio pensiero agli dei immortali. Sconvolto, affranto, disorientato, aveva schivato gli sguardi curiosi e malevoli dei nuovi abitanti di O’ram e a fatica aveva tentato di raggiungere il luogo poco fuori città in cui sorgeva il sobborgo e la torre in cui un tempo aveva vissuto.

La fiamma scarlatta della gemma incastonata nel bastone aveva guizzato all’unisono con la sua anima quando, su in alto, aveva infine intravisto la sagoma familiare del luogo che un tempo non troppo lontano aveva osato chiamare casa. Per un attimo aveva dimenticato le piaghe che i sandali gli avevano procurato durante il suo lungo peregrinare, aveva benedetto il Sole che baciava la sua fronte abbronzata imperlandola di sudore come le foglie degli arbusti in un mattino di brina ed aveva iniziato a correre a perdifiato, fino ad arrivare in cima alla collina, esausto. La sua gioia fu ahimè di breve durata, gli bastò alzare gli occhi al cielo e guardarsi intorno per capire che la pestilenza che aveva colpito il resto della città era giunta anche ai suoi confini più lontani. La torre si ergeva ancora invero, ma tra cumuli di rifiuti che avevano coperto gli arbusti selvaggi e fioriti rimasti scolpiti nella sua memoria. Aveva un aspetto fatiscente, come il resto del borgo d’altronde. Dalle cieche finestre della torre e degli edifici attigui, squallidi volti dai lineamenti alieni sembravano guardarlo con un misto di curiosità e di disprezzo.

Kaisul batté il bastone sul selciato, ignorando quegli occhi che non erano degni di posarsi su di un Sacerdote del Sacro Fuoco e gridò alla volta della torre: “Dov’è il prode Odradeo, il sapiente cavaliere mio eterno rivale? Perché non odo la musica della cetra del Vile Sian, il bardo che tanto mi tormentava con le sue canzoni villane ed irreverenti? E Trozano il Nero, il barbaro dalla spada affilata quanto la sua lingua, perché non è qui a ricevermi come si conviene? Sono dunque morti anche i miei compagni, uccisi dalle spregevoli creature che dimorano in abitazioni in origine destinate a noi uomini? Cosa ha fatto la Sacra Città di O’Ram per meritarsi un simile destino? Quale offesa agli dei fu così grande da tributare un verdetto tanto aspro e inclemente?”

Furono le sue grida ad attrarre infine gli orchi fuori in strada. Sciamarono a decine attorno a lui, guardandolo con espressioni che Kaisul faticava a decifrare. Curiosità, disprezzo… forse anche pietà? Come osava una progenie inferiore e immonda come gli orchi provare pietà per lui, servitore dell’Eterna Fiamma Danzante? Gli dei avevano forse dimenticato davvero cosa fosse la clemenza? Kaisul fece brillare la gemma in cima al bastone ed iniziò a rotearlo attorno a sé per allontanare la folla di orchi che nel frattempo lo aveva circondato. Un piccolo orco fu colpito, poi una femmina, la calca indietreggiò terrorizzata, rumoreggiando. Prima fu un brusio, poi si udirono delle urla rabbiose alla vista del piccolo orco ferito dal bastone del sacerdote straniero. Le urla si fecero sempre più forti, la folla smise di indietreggiare e già gli orchi più grossi si facevano avanti per fermare con le buone o con le cattive la folle danza del sacerdote, prima che qualcuno potesse farsi male sul serio, ma la gemma fiammeggiante li intimoriva, il suo impatto con essa bruciava le carni. Kaisul sudava e ansimava, sapeva di non poterli affrontare tutti, sapeva di essere destinato a soccombere.

Invocò ancora i suoi compagni mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime: “Odradeo, Sian… Trozano! Dove siete?” Una pietra lanciata dalla folla lo colpì infine alla tempia con violenza. Il bastone rotolò in terra, una selva di zampe di orco lo calpestò fino a spegnere la fiamma che fino a un attimo prima aveva terrorizzato l’orda di mostri. Poi Kaisul crollò sul selciato, premendosi la tempia sanguinante. L’acre odore di orco si mescolava con quello del suo stesso sudore. Erano vicini, sempre più vicini. Tra le palpebre socchiuse colme di lacrime poteva ora vedere i volti scimmieschi non più intimoriti osservarlo con gli occhi porcini, malvagi. “E’ la fine dunque. Sono tornato fin qui per morire in questo modo…” sussurrò piagnucolando. Kaisul chiuse gli occhi, in procinto di perdere i sensi,  quand’ecco che credette di udire da lontano una canzone che sembrava aver dimenticato da lungo tempo, una canzone che lo riportava ai giorni in cui la Città Sacra di O’Ram era stata la sua casa.

“La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul…” Gli parve che la folla di orchi si aprisse per far spazio a due visi familiari, un bardo dai lunghi capelli e dallo sguardo sarcastico e sorpreso osservava il suo volto supino e sanguinante con un largo sorriso, mentre accanto a lui un elfo dall’espressione seria si affannava ad allontanare l’orda di mostri mentre cercava disperatamente di chiamare aiuto. Allora le lacrime del giovane sacerdote dell’Eterna Fiamma Danzante sembrarono asciugarsi repentinamente.

“Sian, Odradeo… Allora siete vivi…” mormorò abbozzando un sorriso. “Kaisul, sei proprio tu? Sei tornato?” risposero all’unisono gli amici di un tempo.

“Si… sono tornato.” Mormorò Kaisul in risposta. La pietra scagliata dagli orchi aveva lasciato una ferita molto profonda e il sangue scorreva a fiotti sul selciato, le forze lo stavano per abbandonare. “Sono felice di rivedervi amici miei, anche se solo per pochi istanti. Pochi istanti che valgono tutti gli anni che ho trascorso lontano da voi. Ricordate… Non importa quanto tempo possa passare: neanche la Morte può uccidere la fantasia… La fantasia di Kaisul… La fantasia… di Kaisul.” Queste furono le ultime parole che il giovane pronunciò prima che i suoi occhi si chiudessero per sempre e la sua anima fosse resa agli dei. Sian e Odradeo non le avrebbero mai dimenticate, per il resto della loro vita. [continua…]

Vivi

VIVI

Una poesia di Simone Ceccano

 

Cavalca attraverso il deserto,

anche se non scorgi l’orizzonte.

Diffida delle oasi,

che spengono la tua sete

e insieme la tua libertà.

Sogna il fruscio del mare lontano,

mentre varchi oceani di sabbia

e le lacrime sono il tuo unico sentiero.

Sorridi al sole che sorge,

anche se brucia la tua pelle…

Sogna! Lotta! Grida!

Non perdere la speranza…

In altre parole: VIVI!

Lo sposo della Morte

LO SPOSO DELLA MORTE

Una poesia di Luca Nisi

Ogni singolo giorno, osservo…

I tuoi occhi putrefatti,

La tua carne senza più calore,

Le tue ferite senza nessuna goccia di sangue.

Dolce anima mia, sei morta sorridendo.

Eppure, mio splendido cuore, ogni notte batti e ti lamenti.

Amore mio, con le mie mani ti ho rinchiuso in una bara trasparente

avvolgendoti come una sposa tra morbidi cuscini e fiori bianchi.

Inutile piangere lacrime sopra una fotografia.

Inutile trovare una cura al dolore.

Inutile combattere ancora con la nera malattia.

Devo arrendermi,

gli zombi non possono amare.