Roma, anno 2030. “Fate largo, fate largo!” Urlava l’uomo che si sporgeva dal finestrino dell’ambulanza in un bizzarro miscuglio di italiano e rumeno, lingue entrambe incomprensibili alla maggior parte dei presenti, mentre cercava disperatamente di fare strada al veicolo sgangherato nel bel mezzo di una torma vociante di filippini che si era radunata al centro della carreggiata attorno al corpo esanime di un uomo di mezza età, presumibilmente italiano. Il 40enne, le cui condizioni ormai non lasciavano speranza, era stato colpito in testa da una pietra proprio da uno di quei filippini, la Polizia Islamica era accorsa con il solito ritardo e il colpevole se l’era probabilmente data a gambe. Anche se non fosse stato così, per il commissario Mohammar sarebbe stato lo stesso, in fondo per lui i Filippini erano tutti uguali: ostinatamente cattolici – forse gli unici a non aver oltrepassato il confine – cocciuti e particolarmente omertosi, dono questo che avevano ereditato dagli italiani rimasti nella Città Eterna, non molti a dire il vero. Due di questi, anch’essi sulla quarantina, erano proprio in piedi di fronte al corpo. Sostenevano che la vittima fosse un vecchio amico che vent’anni prima aveva vissuto con loro in quel condominio ai margini della città, in quella periferia ormai diventata una piccola Manila nel cuore della capitale del più grande Stato islamico d’Europa. Pare che Ruggero, questo il nome del poveraccio colpito dalla pietra, fosse un uomo incapace di far del male ad una mosca, nonostante i disturbi mentali di cui soffriva da decenni.
Ciononostante, una donna e un bambino filippino, che ogni tanto mollava un impietoso calcione al corpo esanime, mostravano al commissario Mohammar delle lievi ustioni su braccia e gambe, dovute secondo loro ad un tizzone infuocato, che la vittima aveva utilizzato per aggredire la folla, urlando parole sconnesse e in preda ad un’inspiegabile rabbia. “Orchi! Orchi!” gridava l’uomo prima che uno sconosciuto, dopo aver visto la donna e il bambino feriti, aveva scagliato il sasso rivelatosi fatale.
“Faccio fatica a parlare un italiano corretto.” Ammise il commissario malcelando il forte accento libico, mentre il corpo dell’uomo veniva caricato sull’ambulanza, che in ultimo era riuscita a farsi largo. “Signor Valesini, signor Edoardo, non so che pensare. Che problemi aveva il vostro amico? Cos’è che lo ha spinto a tornare qui dopo vent’anni? Da come era vestito, sembrava appena scappato da una corsia di ospedale…”
L’uomo chiamato Valesini scosse al testa. “Vede signor commissario, non è semplice spiegarle. Riguardo all’ultima domanda non saprei darle una risposta. Nessuno sa davvero che scherzi può giocare una mente umana irrimediabilmente compromessa.”
“Ruggero era un nostro amico, anche se non ci vedevamo da anni.” Intervenne Edoardo aggiustandosi gli occhiali. A tratti era interrotto da una leggera balbuzie, rendendo il compito ancor più arduo al povero commissario Mohammar che doveva seguire il discorso. “Ci conoscevamo fin dai tempi in cui eravamo ragazzi, quando nessuno avrebbe mai immaginato che l’Italia sarebbe diventata una Repubblica Islamica. Spesso ci riunivamo qui la sera con altri amici da tempo scomparsi. Non le spiegherò cosa sono i Giochi di Ruolo perché so che ora sono vietati e un uomo di legge come lei non si comprometterebbe mai con sciocchezze simili.” Il commissario annuì con un’espressione imbarazzata ed eloquente.
“Beh, la vita non era facile neanche nella vecchia Roma in cui siamo cresciuti,” continuò Edoardo. “Eppure, per due o tre ore alla settimana, quei giochi di fantasia ci aiutavano a tirare avanti, giorno per giorno, e a dimenticare le piccole amarezze della vita quotidiana. Almeno per noi era così, ma per Ruggero negli ultimi tempi era diventato sempre più difficile tracciare il confine tra la realtà e la fantasia…” Valesini nel frattempo annuiva in silenzio, osservando amaramente con la coda dell’occhio l’ambulanza andare via con il corpo senza vita dell’amico ritrovato, vestito solo di un camice bianco e di sandali che dovevano aver visto giorni migliori.
La Polizia Islamica nel frattempo era riuscita nell’arduo compito di sgombrare la folla, mentre la donna e il bambino feriti erano stati portati via per essere medicati e poi interrogati. Il commissario Mohammar, da parte sua, sembrava sempre più confuso, aveva spento il sigaro sull’asfalto e si grattava la testa con un’espressione impagabile. “Andate al dunque…” Incalzò tossendo vistosamente.
“Beh, c’è poco da dire.” Rispose Edoardo ripetendo il ‘Beh’ almeno quattro volte. Mohammar, viste le circostanze, si morse la lingua pur di non ridere. “Una sera di vent’anni fa, durante una sessione di gioco qualunque, qualcosa nel cervello di Ruggero scattò pregiudicando irrimediabilmente la sua salute mentale.”
“E io mi sento in qualche modo responsabile di quello che è accaduto a Ruggero, commissario!” Interruppe Valesini sbrogliando il bandolo della matassa. “Quella sera dirigevo io il gioco ed erano settimane che ci eravamo accorti del progressivo distacco dalla realtà di Ruggero. Era come se rifiutasse la vita reale e la ponesse in secondo piano rispetto a quella virtuale che mettevamo in scena in quelle nostre riunioni. Per questo, quella maledetta notte, decisi di far morire il suo personaggio nel corso della partita, il dannato Kaisul, il servitore dell’Eterna Fiamma Danzante.”
Mohammar era un uomo semplice. Prima della Grande Migrazione, prima della vittoria delle forze del Colonnello Gheddafi nella sanguinosa guerra civile libica e della successiva invasione dell’Italia, era stato un ufficiale dell’esercito, pratico, pragmatico e poco incline ai voli di fantasia. Provava sincera pietà per la sorte dell’uomo che aveva terminato il suo lungo viaggio con la testa fracassata e che ora era diretto in una fredda camera mortuaria per l’autopsia. Ma veniva da un mondo che nemmeno lontanamente collimava con quello evocato dai due italiani nei loro ricordi, non aveva gli strumenti per capire e sempre più lo insidiava il sospetto strisciante di avere a che fare con due pazzi non da meno di quello che ci aveva rimesso la pelle. “Continuate…” Mormorò scuotendo la testa.
“Quella notte credetti di aver ucciso Kaisul.” proseguì Valesini puntando gli occhi a terra. “Invece l’unico risultato che ottenni fu quello di uccidere Ruggero. E’ vero, prima del fattaccio lo avevamo sfottuto amichevolmente come eravamo soliti fare. Lo facevamo per scuoterlo, per svegliarlo. La fantasia di Kaisul era la canzoncina che cantavamo sempre quando ci accorgevamo che Ruggero aveva superato il limite e non riusciva più a distinguere il gioco dalla realtà. Lui naturalmente ogni volta andava su tutte le furie e quella sera non era stato da meno. Ma quando vide il suo personaggio ucciso da un’orda di orchi fu troppo per lui. Rimase quasi in stato catatonico per qualche decina di minuti, insensibile alle provocazioni esterne. Lo sguardo vitreo, perso chissà dove, sembrava davvero quello di un cadavere morto ad occhi aperti. Poi ad un certo punto si alzò, scrutò impassibile tutti i presenti e disse solo queste parole: “Neanche la morte può uccidere la fantasia.” Quindi corse via e si chiuse nella sua stanza. Sono le stesse parole che ci ha detto oggi, prima di chiudere gli occhi per sempre…”
Valesini distolse lo sguardo dall’imbarazzato commissario, lottando contro lacrime affioranti e sensi di colpa che pensava di aver sepolto per sempre. Negli ultimi vent’anni aveva spesso ripensato a quella notte in cui in un certo senso avevano visto per l’ultima volta Ruggero. Udire di nuovo quelle parole, quelle stesse parole, era stato per lui un colpo troppo grande. Ci pensò Edoardo a soddisfare le residue curiosità del commissario. Raccontò come il giorno successivo Ruggero avesse iniziato a comportarsi come fosse Kaisul, a parlare come lui, agire come lui, persino a vedere il mondo con i suoi stessi occhi!
All’inizio tutti pensarono fosse nient’altro che uno scherzo, una piccola vendetta di Ruggero per la morte del suo personaggio. Ma quando passarono i giorni e infine le settimane fu chiaro a tutti che la cosa si stava facendo seria: Ruggero aveva perso completamente il senno. Sopportarono la situazione ancora per qualche mese, nascondendo quello che era accaduto alla madre e al fratello. Cercarono di non farlo uscire di casa per paura potesse farsi del male, incapace com’era di percepire la realtà attorno a lui. Ma la faccenda si faceva ogni giorno più difficile, Ruggero, o sarebbe meglio dire Kaisul, cominciava ad abbandonarsi sempre più spesso a manifestazioni violente se non assecondato. Ci furono un paio di liti con Valesini che rifiutava in qualche modo di accettare che l’amico fosse diventato totalmente pazzo, per giunta in un certo senso a causa sua; volarono qualche pugno e un po’ di insulti, niente più. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando Kaisul, spolverando tutto il suo zelo religioso, aggredì la fidanzata di Edoardo, che si era rifiutata di adorare il Grande Dio del Fuoco mentre cucinava per tutti. Fu un miracolo che Lucia non fosse deturpata dall’olio bollente che il sacerdote pazzo gli scagliò contro. Fu altrettanto un miracolo che quella notte Edoardo non abbia ammazzato l’amico che aveva avuto accanto fin dai tempi del Liceo, limitandosi solamente a rompergli il naso. Ormai era chiaro a tutti che Ruggero non sarebbe più tornato e divenne perciò inutile tenere il segreto. La famiglia seppe delle sue condizioni e Ruggero lasciò Roma, la città in cui era cresciuto, per tornare a Catania, la città in cui era nato. Tornò, ma in un manicomio e senza apparenti speranze di uscirne. Per gli amici inizialmente il distacco fu più facile del previsto. In fondo per loro Ruggero era morto da tempo, quella sera stessa in cui Kaisul era stato massacrato dagli orchi. La famiglia, inutile dirlo, fu invece devastata dal dolore. Dal canto suo, Ruggero sembrò non provare nulla. Era sereno, parlava di un lungo viaggio che doveva compiere per completare il suo ‘addestramento’, ogni comunicazione con la realtà esterna poteva dirsi ormai irrimediabilmente interrotta.
I primi tempi, Valesini, Edoardo e gli altri componenti del nutrito gruppo che si riuniva ogni settimana nell’attico ai margini della periferia di Roma, andarono di tanto in tanto a trovare l’amico nella casa di cura di Catania, per tornare sistematicamente immalinconiti. Non c’era alcun segno di miglioramento, le ultime volte Ruggero sembrava addirittura non riconoscerli più. Quella disgrazia colpì tutti profondamente, d’altronde come poteva essere altrimenti? Un’ombra calò sulla compagnia di amici e presto le sedute di gioco si fecero più rade, fino ad interrompersi del tutto, con tacito e unanime assenso dei partecipanti. Tra tutti, Valesini in particolare perse completamente l’allegria e il sarcasmo che lo avevano sempre contraddistinto e da quel momento non fu più lo stesso.
Poi il mondo sembrò impazzire davvero e la piccola tragedia personale di Ruggero non divenne altro che un insignificante tassello di un puzzle partorito dalla mente del dio folle e beffardo che ogni tanto rimescola il calderone della Storia. La crisi economica che sconvolse l’Europa, la guerra civile in Libia e le rivolte nei paesi arabi, la grande migrazione che si riversò come un maremoto incontrollabile sul vecchio continente dalle fondamenta ormai scricchiolanti, l’invasione dell’Italia centro-meridionale da parte dei libici e la secessione delle regioni del Nord, la guerra, i disordini di piazza, le decine di migliaia di morti… Quando la marea finalmente si ritirò, del vecchio mondo che gli europei e gli italiani in particolare avevano conosciuto non erano rimaste che le macerie e i sopravvissuti non avevano avuto altra scelta che integrarsi nel nuovo contesto o fuggire altrove, dove le vestigia di quella che un tempo era stata la culla della civiltà occidentale erano riuscite in qualche modo a sopravvivere.
Nemmeno la compagnia di amici fu risparmiata dalla colossale tempesta. Marcello e Simone, che nel mondo di fantasia erano stati Zeno il pedante gnomo e Kacce l’infido negromante seduttore d’ingenue fanciulle, erano rimasti uccisi da alcuni cecchini in un tumulto di piazza durante l’assedio di Roma. Lo stesso giorno Lorenzo, alias Trozano il Nero, il barbaro dalla spada affilata quanto la sua lingua, era stato gambizzato ed era rimasto per sempre costretto su di una sedia a rotelle. La Sicilia intanto era lontana e resisteva agli invasori pagando il prezzo sempre più alto di un giornaliero bagno di sangue. Di Ruggero si persero irrimediabilmente le tracce, almeno fino al giorno in cui era miracolosamente riapparso, solo per trovare un epilogo che mettesse fine per sempre alla sua follia.
“E questo è davvero tutto commissario.” Concluse Edoardo finendo l’ultima frase senza neppure balbettare. Il commissario Mohammar si mise entrambe le mani sulla testa, confuso dal racconto che aveva quasi dell’incredibile e ormai certo di essere capitato in una gabbia di matti. Assicurò ai due italiani che avrebbe provveduto personalmente a dare una degna sepoltura al loro sventurato amico e tornò in fretta e furia nel suo ufficio, con la mente piena di dubbi e domande a cui solo parzialmente sarebbe riuscito a dare una risposta.
Valesini ed Edoardo dal canto loro rientrarono in casa, dove Lorenzo, l’unico altro sopravvissuto dell’allegra compagnia di un tempo, aveva assistito alla morte di Ruggero dall’alto del terrazzo. Aveva lo sguardo fisso verso l’orizzonte e la città poco distante, imprigionato sulla sedia da non cui poteva alzarsi.
“Era Ruggero, vero?” disse senza voltarsi ai due amici appena rincasati.
“Si, era proprio lui.” Risposero i due contemporaneamente con un filo di voce. “La polizia ci farà sapere quando e dove sarà seppellito, dopo gli accertamenti del caso.”
“Ha detto qualcosa prima di… di…” provò ad incalzare l’uomo barbuto lottando contro il groppo in gola, mentre stringeva i braccioli della sedia a rotelle con tutta la forza delle braccia in cui ormai era concentrato il suo residuo vigore.
“Le sue ultime parole sono state… Beh… Le stesse di quella sera, che neanche la Morte può uccidere la fantasia.” replicò Valesini con un sorriso amaro. “Ironico, non è vero?” Aggiunse. “In fondo è stata proprio la fantasia ad ucciderlo…” Lorenzo non rispose. In realtà nessuno aveva granché voglia di aggiungere altro in quel momento, e dopo aver fissato ancora per qualche attimo l’uomo seduto di spalle, Valesini ed Edoardo si diressero in silenzio verso le proprie stanze e l’argomento tacitamente non fu più toccato fino al giorno del funerale.
L’uomo rimasto solo sul terrazzo silenzioso continuò a fissare l’orizzonte tingersi di rosso dietro le sagome dei palazzi lontani, mentre cercava di convincersi che le lacrime che solcavano la sua barba fluente fossero dovute solamente al fumo di sigaretta che gli era finito negli occhi. Ma le lacrime non smisero di scendere neppure quando la sigaretta fu buttata di sotto, come pure, per quanto grottesco possa sembrare, un martellante motivetto non riusciva a smettere di echeggiare nella sua testa, come un’incessante litania blasfema e beffarda: “La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul… La fantasia di Kaisul…” [continua…]